È attualmente in via di svolgimento la consultazione pubblica dell’Agenzia europea delle sostanze chimiche (European Chemicals Agency, ECHA) sulla proposta di restrizione a produzione e uso delle sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS), presentata da Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia e motivata soprattutto dai rischi posti alla salute umana. Intanto, un’indagine di diciotto testate giornalistiche europee ha rivelato più di 17mila siti contaminati in Europa.
I PFAS sono persistenti e bioaccumulabili
I PFAS sono una classe di diverse migliaia di composti chimici utilizzati, grazie alle loro proprietà impermeabilizzanti e alla loro stabilità, in molti processi industriali e in vari oggetti quotidiani: schiume antincendio, padelle antiaderenti, imballaggi per il cibo, tessuti impermeabili, dispositivi elettronici e medici, prodotti per la pulizia. “Il numero esatto cambia a seconda della definizione specifica utilizzata, che può includere sostanze parzialmente fluorurate, polimeri e prodotti di reazione o di degradazione parziale” spiega ad Agenda17 Luisa Pasti, docente di Chimica analitica presso il Dipartimento di Scienze dell’ambiente e della prevenzione dell’Università di Ferrara.
Le proprietà che rendono i PFAS utili sono però le stesse per cui sono pericolosi per l’ambiente e per la salute umana anche in piccole quantità. I PFAS devono infatti la loro stabilità ai legami atomici fra carbonio e fluoro, fra i più forti in chimica organica: questo significa che, a seconda della tipologia, possono impiegare fino a centinaia o migliaia di anni per degradarsi nell’ambiente.
Inoltre, essendo sostanze che presentano caratteristiche sia idrofile che lipofile (sono solubili sia in acqua che nei solventi oleosi), sono molto mobili, ovvero, una volta rilasciati dalla sorgente di produzione, sono trasportati facilmente per lunghe distanze nell’acqua e nelle falde, nel suolo, nei vegetali e, attraverso la catena alimentare, nei tessuti animali fino al sangue umano.
Le fonti che contaminano maggiormente l’acqua e il suolo sono gli stabilimenti chimici di produzione di perfluorurati, le discariche, i luoghi dove si usano schiume antincendio (vigili del fuoco, basi militari, aeroporti), le cartiere e le fabbriche di prodotti contenenti PFAS come le industrie tessili. Bonificare i siti inquinati è difficile e molto costoso. I PFAS infine sono bioaccumulabili, perché gli organismi viventi non riescono a espellerli allo stesso ritmo a cui li accumulano. Per tutti questi motivi sono detti “inquinanti eterni” (“forever chemicals” in inglese).
La proposta di restrizione in Ue e le obiezioni delle aziende
L’Unione Europea (Ue) si era già mossa dieci anni fa, vietando a partire dal 2015 l’immissione sul mercato e l’uso nel territorio dell’unione di due tipi di PFAS, sospettati di essere cancerogeni: PFOA (acido perfluoroottanoico) e APFO (pentadecafluoroottanoato di ammonio). Ora, a febbraio 2023, l’ECHA ha pubblicato una proposta di restrizione per tutti i tipi di PFAS e il 22 marzo ha aperto la fase di consultazione pubblica, che si chiuderà il 25 settembre.
La proposta consiste in un divieto con un periodo transitorio di diciotto mesi per applicazioni in cui esistono già alternative (come padelle antiaderenti, spray per la pulizia, cosmetici) e con deroghe di cinque o dodici anni per usi specifici in cui le sostanze sostitutive rispettivamente sono in via di sviluppo (come nel caso dei macchinari industriali utilizzati per produrre cibo) o devono ancora essere sviluppate (come per i dispositivi medici impiantabili).
Durante la consultazione, le parti interessate (aziende, Stati, organizzazioni, cittadini) potranno inviare informazioni scientifiche e tecniche con particolare riguardo ai rischi per la salute umana, all’impatto socioeconomico della restrizione e alle possibili alternative ai PFAS. Successivamente, i comitati scientifici dell’ECHA procederanno all’analisi e invieranno un parere alla Commissione Europea che, assieme agli Stati membri, prenderà la decisione finale sulla messa al bando.
Tuttavia, la proposta è messa in pericolo da un’estesa attività di lobbying attuata dai giganti della chimica industriale per indebolire i divieti e ottenere esenzioni, come ha rivelato l’indagine di The Forever Pollution Project, sviluppata da diciotto testate giornalistiche europee (fra cui Radar Magazine e Le Scienze per l’Italia). Si teme che le industrie sostituiranno le sostanze vietate con altre appartenenti alla stessa classe, escluse dalla regolamentazione, ma forse non meno dannose.
Le associazioni industriali sostengono che la messa al bando dei PFAS metterebbe a rischio milioni di posti di lavoro e rallenterebbe la transizione energetica, perché essi sono utilizzati anche nelle batterie elettriche e nei semiconduttori, dove è difficile trovare alternative. Come spiega Pasti, “molte aziende chiedono che vengano considerate le specificità delle singole sostanze in modo da imporre limiti diversi a seconda della loro pericolosità effettiva. Questo processo potrebbe richiedere tempi di attuazione più lunghi per ottenere tutte le informazioni necessarie. Anche la ricerca di alternative può essere un processo lungo, soprattutto per applicazioni tecnologicamente avanzate.
L’Ue cerca sempre di imporre delle deadline per la realizzazione degli obiettivi che si prefigge. Tuttavia, agisce sempre modificando la data di raggiungimento qualora si dimostri l’impossibilità tecnica o un serio danno socioeconomico. Come per le limitazioni imposte per far fronte alla pandemia di Covid-19, l’Ue effettua scelte basate su analisi costi-benefici. Il mio personale parere è quello di mettere al bando tutti i PFAS utilizzati in settori non altamente strategici e imporre agli utilizzatori di PFAS in settori strategici sistemi efficienti di abbattimento dagli scarichi e dalle emissioni, assoggettati a severi controlli da parte delle Agenzie preposte.”
Le mappe europea e italiana della contaminazione da PFAS
L’indagine di The Forever Pollution Project ha anche rivelato 17.471 siti contaminati in Europa con concentrazione combinata di PFAS uguale a o maggiore di 10 ng/L (nanogrammo per litro), basandosi su campioni prelevati dall’acqua, dal suolo o da organismi viventi dal 2003 al 2023. Utilizzando questi dati su QGIS e usando come base Google Maps, sono state realizzate le mappe europea e italiana. Risaltano alcuni siti con una concentrazione maggiore di 100mila ng/L, soprattutto in Belgio, in particolare l’area dell’impianto della multinazionale 3M a Zwijndrecht (68.900.000 ng/L), una delle più contaminate al Mondo.
In Italia si notano due zone particolarmente inquinate, in corrispondenza degli impianti dell’ex-Miteni di Trissino a Vicenza (7.132.440 ng/L) e della Solvay di Spinetta Marengo ad Alessandria (927.000 ng/L). La prima azienda è fallita nel 2018 e i suoi ex-manager sono tuttora a processo per il disastro ambientale e sanitario che ha coinvolto le Province di Vicenza, Verona e Padova. La seconda è stata oggetto di indagini da parte del Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri (Noe) fra il 2021 e il 2022 e si è in attesa di sapere se ne seguirà un processo.
“A mio avviso i dati rilasciati da The Forever Pollution Project non sono una sorpresa – commenta Pasti -. Quando una classe di sostanze chimicamente e termicamente stabili viene utilizzata in diversi settori industriali e in prodotti di largo impiego, poi la si ritrova ovunque nell’ambiente. Casi simili si sono già presentati nel passato, si pensi ad esempio ai clorofluorocarburi (CFC)”, che hanno causato il cosiddetto “buco” dell’ozono. (1_Continua)