L’Italia è tra i Paesi europei che, in percentuale rispetto alla propria spesa pubblica, investono meno nell’istruzione. Secondo il report dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) Education at Glance, l’Italia destina complessivamente il 3,9% del proprio Prodotto interno lordo (Pil) a questo fondamentale settore, posizionandosi ampiamente sotto la media dell’Unione europea (4,4%), davanti solo a Grecia, Ungheria (entrambe a 3,7%), Lituania (3,4%) e Irlanda (3,0%). Paesi come il Regno unito o la Norvegia investono una quota percentuale decisamente superiore, assestandosi oltre il 6%. Altri grandi Paesi europei comparabili con l’Italia hanno tutti percentuali che superano almeno il 4%: 5,1% la Francia, 4,3% la Spagna, 4,1% la Germania.
Guardando alle singole voci di spesa, emergono altri elementi interessanti. Per quanto riguarda l’istruzione primaria l’Italia spende l’1,1% del Pil, una quota appena inferiore alla media Ue (1,3%) o a Paesi come la Francia (1,2%) ma decisamente superiore a quella della Germania (0,7%). L’Italia appare in linea anche con la media europea per quanto riguarda l’istruzione nelle scuole secondarie (1,8% l’Italia e 1,9% l’UE).
Il divario, però, si amplia se si osserva l’investimento nell’istruzione universitaria e nell’educazione terziaria, per cui l’Italia si trova agli ultimi posti. In Europa, meno di noi spendono solo Irlanda e Lussemburgo. Spendiamo, infatti, appena lo 0,9% del nostro Pil. Il Regno unito ci doppia (2,0%), mentre Francia e Germania spendono rispettivamente l’1,5% e l’1,3%. I Paesi bassi, uno Stato con 17,4 milioni di abitanti, circa un terzo dell’Italia, spendono in termini assoluti quasi il doppio dell’Italia (1,7%).
È un quadro molto chiaro, e decisamente preoccupante, quello che emerge dai dati presentati nell’ Annuario scienza tecnologia e società 2023, curato dal centro di ricerca Observa – Science in Society
Fanalino di coda per laureati
I dati Eurostat più recenti (2021) mostrano che l’Italia resta il fanalino di coda tra i Paesi Ue per la quota di laureati e dottori di ricerca, il 17,8% della popolazione (tra i 15 e i 64 anni), rispetto al 29,5% della media UE registrata nel 2021.
La quota italiana è superiore solo a quella della Romania, pari al 16,4%. In testa alla classifica europea stilata in base alla quota dei laureati registrati nei singoli Paesi c’è l’Irlanda (45,2%), seguono Lussemburgo (44,5%), Cipro (41,9%), Lituania (39,8%), Belgio e Svezia (entrambi a 39,7%).
I dati non sono positivi neppure se guardiamo alla loro evoluzione longitudinale: negli ultimi dieci anni, in Italia si osserva una crescita del numero di laureati e dottori di ricerca di appena 3 punti percentuali (dal 13,9% del 2012 alla già citata quota raggiunta nel 2021), mentre nell’Unione Europea i laureati e dottorati sono cresciuti di oltre 6 punti (passando dal 23,2% del 2012 al 29,5% del 2021).
Scarsa attrattività: pochi stranieri entrano, molti italiani escono
La libera circolazione delle persone è un atto costitutivo della Comunità europea e, storicamente, rappresenta un fattore che ha favorito lo sviluppo della scienza. In Europa, i cittadini in età lavorativa che vivono in uno Stato diverso da quello in cui hanno la cittadinanza è il 3,3% (fonte: Eurostat, dati riferiti al 2020). Questa media continentale nasconde però un’elevata variabilità tra Paesi: dalla Germania, per esempio, non emigra quasi nessuno, mentre dalla Romania si sposta quasi un lavoratore su cinque.
L’Italia è vicina alla media europea (2,8%). Tra coloro che decidono di lasciare il nostro Paese, chi ha un titolo universitario o assimilabile è sovrarappresentato. In altre parole, a spostarsi sono soprattutto gli italiani i più istruiti.
I fattori che incidono sono indubbiamente molteplici ma se ci focalizziamo sulla situazione del mondo della formazione e della ricerca, un aspetto emerge con chiarezza. Attraverso l’elaborazione dei dati OCSE proposta da Observa, per esempio, è possibile osservare che la quota media di studenti e dottorandi stranieri nei Paesi europei (sul totale degli iscritti) è pari al 12,2% e arriva al 35,8% nel Regno Unito; in Italia è al 3,6%. Se si considerano solo i dottorandi, la media europea è del 18,9%, con punte superiori al 30% in Portogallo, Svezia, Austria, Danimarca e Francia. In Italia abbiamo solo 15,6 dottorandi stranieri su 100.
Questi dati ci permettono di riflettere sulla cosiddetta “fuga dei cervelli”, ovvero ricercatori e giovani altamente qualificati che lasciano il nostro Paese. Il dibattito pubblico appare spesso incagliato in consueti luoghi comuni.
Guardando i dati la questione potrebbe essere riassunta nella carenza di un pull factor verso l’Italia. Il dibattito sulla “fuga dei cervelli” non dovrebbe ridursi solo a quanti studenti o dottorandi italiani decidono di formarsi all’estero ma soprattutto concentrarsi sulla quota relativamente ridotta di stranieri che decidono di fare una parte del loro percorso formativo e professionale in Italia.
Su questo aspetto, pesano alcuni aspetti strutturali del nostro sistema universitario (lingua d’insegnamento, elevate tasse d’iscrizione) e produttivo (dimensione delle imprese, cultura imprenditoriale), oltre alla ridotta valorizzazione del dottorato di ricerca nel nostro sistema industriale. Queste dinamiche contribuiscono a renderci “esportatori netti” di risorse altamente qualificate.
Studenti poco preparati, ma contano soprattutto le diseguaglianze
Una scuola sottofinanziata è una scuola che non riesce a preparare adeguatamente i suoi studenti. Nonostante la retorica sulle eccellenze dei licei (da ormai diversi anni l’Italia sta assistendo a un processo di “liceizzazione” degli studi superiori), la verità è che l’Italia si classifica costantemente sotto la media dei Paesi Ocse per quanto riguarda competenze scientifiche e matematiche. Nell’ultima Indagine Ocse-PISA (Programme for International Student Assessment) del 2018 gli studenti italiani hanno ottenuto un punteggio in literacy matematica in linea con la media dei Paesi Ocse ma inferiore in scienze e lettura.
Come tutti i risultati di test, anche lo studio PISA non andrà preso alla lettera, ma un elemento emerge prepotentemente: la persistente disuguaglianza. Gli studenti del Nord ottengono risultati migliori in matematica rispetto agli studenti del Centro, del Sud e delle Isole.
Gli studenti liceali ottengono risultati superiori a quelli degli Istituti tecnici, degli Istituti professionali e della Formazione professionale. Le differenze nei risultati medi tra macro-aree geografiche si confermano molto marcate anche nelle competenze scientifiche.
L’abbandono scolastico in Italia
I dati fin qui presentati ci restituiscono un quadro tutt’altro che idilliaco. In Italia, l’istruzione (anche quella universitaria) finisce spesso per trasformarsi in un sistema elitario dove a laurearsi è chi esce da un liceo o ha genitori già laureati o benestanti.
Lo conferma il recente report Caritas che evidenzia come i poveri provengano per lo più da nuclei familiari con bassi titoli di studio, in alcuni casi senza qualifiche o addirittura analfabeti.
Sono proprio i figli delle persone più svantaggiate a interrompere prematuramente gli studi, fermandosi al diploma di scuola media inferiore o addirittura al termine della scuola primaria. Oltre la metà dei figli di genitori laureati, invece, arriva a conseguire un diploma di scuola media superiore o alla laurea.
Un’istruzione sottofinanziata e diseguale ha inevitabili ricadute sulla competitività del Paese. La povertà educativa, secondo una recente stima fatta dal Forum delle diseguaglianze, inciderebbe sul Pil per il 4%. A pesare sono soprattutto i costi sostenuti per tamponare il fenomeno dell’abbandono scolastico.
Ancora una volta i dati Eurostat ci dicono che nel 2021 il 12,7% dei giovani italiani tra i 18 e i 24 anni ha abbandonato precocemente la scuola, fermandosi alla licenza media. È un dato che pone il nostro Paese agli ultimi posti della classifica, considerata la media europea del 9,7%.
Anche in questo caso le differenze sono legate al territorio, all’ambiente sociale di origine, al genere e alla cittadinanza ma siamo ancora lontani dall’obiettivo di attestarsi sotto il 9%, fissato dall’Ue per il 2030.