Le ultime nevicate, che hanno portato un po’ di sollievo sull’arco alpino, non possono avere la pretesa di risollevare il territorio italiano dall’evidente siccità che già ora lo contraddistingue. Gli ultimi dati, raccolti ed emessi da Fondazione CIMA e aggiornati al 15 febbraio 2023, ribadiscono le condizioni di deficit di risorsa idrica nivale in particolare nella zona alpina (-53%). La neve caduta non è infatti sufficiente a raggiungere i valori medi del periodo 2011-21, soprattutto sulle Alpi.
I dati sono inequivocabili nel mostrare un cambio di rotta in relazione all’andamento delle precipitazioni sull’arco alpino e appenninico, cambiamento che necessariamente dovrà prevedere una revisione delle modalità di gestione, anche economica, del territorio montano.
Inverno liquido, un racconto collettivo
Maurizio Dematteis, intervistato da Agenda17, è autore, con Michele Nardelli, del volume “Inverno liquido” nel quale sono analizzate in modo capillare diverse realtà montane del territorio italiano alla luce dei cambiamenti climatici in atto e in relazione alla gestione del turismo invernale. Si tratta di un lungo racconto che nasce dal dialogo diretto con esperti e testimoni delle località descritte ed è supportato da un’ampia rassegna di dati statistici.
“La vera catastrofe è quella ambientale – spiega Dematteis – mentre la crisi dello sci alpino è invece semplicemente la crisi di un sistema che non funziona più.” La monocoltura dello sci, infatti, è stata per decenni il perno dell’economia turistica invernale di buona parte del territorio montano, con impianti via via più moderni e interconnessi, nell’ottica di offrire un sempre miglior servizio ai clienti sempre più numerosi.
A partire dagli anni Trenta, in Italia si cominciano a creare le prime infrastrutture che diventeranno in seguito, dopo la Seconda guerra mondiale, impianti di risalita veri e propri diffusi, un po’ per volta, in Piemonte e Lombardia prima, e in Val d’Aosta e Trentino poi.
Un modello da ripensare
“I dati ci confermano – prosegue Dematteis – che il turismo invernale basato sull’oro bianco non funziona più. In Piemonte, per esempio, delle quarantasei stazioni sciistiche attive nel 2013, oggi ne restano aperte una trentina, con un tasso di mortalità che si aggira intorno al 35% in dieci anni.
La scarsità di precipitazioni nevose, associata a un modello di turismo mordi e fuggi orientato al profitto rapido, hanno messo in crisi questo sistema in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale. Le stazioni sciistiche più piccole sono costrette a chiudere, quelle grandi sopravvivono grazie alle sovvenzioni, ma in generale i numeri del profitto non sono più quelli dello sci di massa che in passato ha sostenuto la proliferazione di impianti, seconde case e infrastrutture orientate al progresso infinito.
“È il modello che va ripensato, il vecchio sistema della monocoltura dello sci a cui ci si lega con una sorta di accanimento terapeutico va abbandonato – continua Dematteis – per aprirsi a nuovi scenari, che già esistono in varie località del territorio montano italiano. Prospettive e dimensioni creative che hanno scelto di ripensare un modello poco adeguato al territorio, costruendo alternative attraverso la forma di riconversione o di rinaturalizzazione dell’ambiente montano.”
Ripartire dalle comunità, di azione e di pensiero
In “Inverno liquido” sono numerose le situazioni citate come esempi di successo condotte con creatività e coraggio da varie comunità sparse lungo la penisola. Di fronte agli effetti evidenti dei cambiamenti climatici sui territori montani, occorre infatti prestare in primis un’attenzione particolare alle comunità che ancora vivono quegli ambienti e che da sempre conoscono il senso del limite che la montagna impone.
Ed è proprio nei concetti di comunità e senso del limite che si possono trovare possibili nuove prospettive per reagire, in modo più sostenibile, ai cambiamenti in atto. La comunità va intesa come partecipazione allargata e condivisa, basata sul confronto e diffusione dei saperi e delle responsabilità, mentre il senso del limite è la capacità di cogliere la finitezza delle risorse e la necessità di tutelarle adottando sistemi più attenti all’ambiente.
“La genesi del libro – prosegue l’autore – è stata anch’essa una sorta di genesi di una comunità di pensiero, perchè per articolare un reportage così ampio e afferente a un territorio così vasto, non abbiamo potuto che costruire noi stessi una comunità di persone che hanno iniziato a confrontarsi su un tema, il rapporto uomo-ambiente, specificatamente rivolto al territorio montano in Italia”. Il libro stesso è pensato come il numero zero, ovvero il primo numero di un collettivo di scrittura che si interroga e si confronta sui nodi del cambiamento che le terre alte stanno vivendo.
Gli esempi fortunati di riconversione e ripensamento del territorio montano come, tra gli altri, quelli dei Piani di Artavaggio, della Valpelline, della Val di Funes e della Valle dei Cavalieri, descritti nel libro, sono infatti il frutto del lavoro collaborativo di persone che hanno recuperato un modo di stare in montagna più rispettoso dell’ambiente, più sostenibile e meno orientato al profitto rapido garantito dai grandi numeri.
La rinaturalizzazione di un territorio grazie all’intervento della comunità locale
Un significativo esempio di riconversione e rinaturalizzazione di un territorio è quello dei Piani di Artavaggio, in provincia di Lecco. Qui nel 2000, per carenza di neve e diminuzione degli afflussi turistici, la società di gestione degli impianti è fallita e l’attrazione legata all’oro bianco è sembrata svanire.
Qualche anno dopo è l’amministrazione locale ad acquisire la proprietà degli impianti, smantellando quelli in quota e riattivando la funivia di arroccamento garantendo così un avvicinamento allo sci per i principianti. La frequentazione è ripartita in modo graduale con nuovi tipi di turisti: i principianti, nelle poche piste vicine al tapis roulant, e quelli con le pelli di foca e le ciaspole che apprezzano il silenzio e la pace che il luogo ha riacquistato dopo l’abbandono del turismo di massa. L’esposizione e la pendenza rendono il luogo adatto e sicuro per gli scialpinisti così come i numerosi i percorsi dedicati ai ciaspolatori.
In estate, inoltre, sono aumentati i mountain bikers, gli e-bikers e gli escursionisti e i rifugi hanno ripreso a lavorare accogliendo il passaggio da zona sciistica a naturalistica con la conversione del turismo dei grandi numeri in quello slow e green.
E in relazione ai numeri chiarisce ancora Dematteis “il paradigma dei grandi numeri in pochi posti va sostituito con pochi numeri in tanti posti. I grandi numeri in pochi giorni portano sofferenza al delicato ecosistema montano: bisogna abbandonare l’idea del turismo di massa per sostenere invece situazioni nuove che valorizzino le produzioni locali, mettano in sinergia agricoltura, turismo e ristorazione, e incentivino la ripresa demografica degli ambienti montani, garantendo anche la presenza di servizi di base per le comunità locali.
Offerte quindi rivolte a tutto l’anno solare e non solo a limitati periodi, che sappiano valorizzare un nuovo approccio con la natura dopo che gli anni di pandemia hanno fatto riemergere il bisogno di costruire un contatto autentico e personale con l’ambiente.”
Il turismo delle relazioni versus il turismo mordi e fuggi
Nell’ottica di valorizzare un nuovo approccio con la natura rientrano pienamente le proposte della Val di Funes, nel Sud Tirolo. Lontano dai moderni comprensori sciistici e dalle strutture alberghiere, l’attrazione della valle sono le relazioni con la natura, con le persone e con le loro attività. La lungimirante proposta di recuperare l’allevamento di una pecora locale, la pecora con gli occhiali, così come la ripresa di produzioni agricole tradizionali, hanno costruito le basi per proporre un’offerta turistica incentrata sul conoscere una comunità in armonia con il territorio e capace di curarne il paesaggio. “Il turismo relazionale – chiarisce Dematteis – si appoggia sull’idea dell’ospitalità diffusa nei masi e sulla possibilità di entrare in contatto con le comunità locali e le loro attività quotidiane, prerogativa che garantisce un approccio lento ed attento (o sostenibile) all’atto stesso del viaggiare.”
La forza della comunità di Prali
Il piccolo comune della Val Germanasca, per anni meta turistica di sciatori del torinese e milanese, si è trovato nei primi anni Duemila a fare i conti con nevicate irregolari, costo della vita in salita e gli impianti da revisionare. I medesimi impianti che avevano rappresentato l’indiscusso core business locale, si fermano nel 2004 lasciando la comunità incredula e sconcertata.
“Grazie all’intervento del Comune e della Comunità montana – spiega Dematteis -, una nuova società a responsabilità limitata (Srl) acquisisce gli impianti usando i fondi delle olimpiadi invernali per operare la ristrutturazione. Ma gli abitanti di Prali capiscono subito che è necessario un intervento che sappia rilanciare l’economia del Paese superando la dipendenza dallo sci alpino, per garantire la permanenza dei servizi locali e mantenere viva la comunità.
Ecco perché costituiscono, presso i locali della Pro Loco, una nuova società di gestione per gli impianti in via di ristrutturazione. Una società formata da imprenditori locali, residenti e motivati a mantenere vivo il territorio. L’impegno prevede un’apertura annuale della seggiovia con l’obiettivo di diversificare l’offerta verso gli amanti di escursioni, mountain bike e downhill. A distanza di oltre quindici anni la scommessa si è rivelata vincente con nuove imprese agricole, pastorali ed educative che affiancano e diversificano la proposta univoca dello sci, rendendo il Paese attraente anche per nuovi giovani residenti.”