Quando il pubblico entra, lo spettacolo è già iniziato. Sul palcoscenico scende una pioggia tenue e una donna – che emette lamenti di fatica – taglia in parti sempre più piccole dei tronchi di legno tra un groviglio di fili e di macchinari. Quando tutti gli spettatori sono al loro posto, le luci in sala calano e lo spettacolo si mette in moto.
Comincia così il Frankenstein o Il moderno Prometeo, la nuova produzione di Office for a Human Theatre (OHT) andata in scena dall’8 al 12 febbraio al Teatro Astra di Torino e attualmente in programma al Teatro SanbàPolis di Trento il 31 marzo e il 1 Aprile, per la regia di Filippo Andreatta.
Le due performer Silvia Costa e Stina Fors, utilizzando rispettivamente l’italiano e inglese, danno vita a uno scambio tra l’autrice e la sua creatura mentre il clima, reso non solo da luci e scenografia ma soprattutto dai suoni e dalla musica di Davide Tomat, avvolge lo spettatore.
L’immaginario di riferimento non è il “mostro cinematografico” di tante pellicole, ma la rilettura della filosofa Dehlia Hannah del romanzo di Mary Shelley alla luce dell’attuale crisi climatica.
Indagare il rapporto tra uomo e ambiente attraverso l’arte
Hannah attualmente è borsista post-dottorato alla Royal Danish Academy of Fine Arts e l’ARKEN Museum of Modern Art di Copenhagen ed è curatrice, assieme a Brenda Cooper, Joey Eschrich e Cynthia Selin, del libro A Year Without a Winter: traendo ispirazione dall’opera di Mary Shelley, il testo si interroga sul modo in cui le opere degli artisti che evocano nuovi immaginari riorientino le prospettive sulla posizione dell’uomo all’interno dell’ambiente.
Il titolo del libro, che ricorda l’attuale aumento delle temperature, richiama però anche l’“anno senza estate”, durante il quale Mary Shelley scrisse il suo Frankenstein. L’eruzione del vulcano Tambora del 1815 aveva infatti provocato la più grande anomalia climatica fino ad allora registrata: la nebbia sulfurea del vulcano abbassò le temperature e provocò violenti e continui temporali con le conseguenti carestie in Europa, Nord America e Asia.
Questo contesto è reso nello spettacolo da un pannello mobile, raffigurante la skyline alpina, su cui vengono proiettati i sovratitoli, in italiano e in inglese, della voce narrante: l’elemento scenico mobile – quando presente sul proscenio – fornisce informazioni storiche e tecnico-scientifiche intervallando lo scambio delle due performer. Quando il pannello viene risollevato per consentire la visibilità dell’intero palcoscenico, in alto continuano a essere proiettati i sovratitoli nelle due lingue. La voce del “mostro”, inizialmente distorta, si farà man mano più chiara, restituendo così al pubblico la propria evoluzione.
Filippo Andreatta, scrittore e regista dello spettacolo, che con Dehlia Hannah ha avuto un confronto diretto, spiega ad Agenda17: “Nel lavoro c’è una parte più contestualizzante, in forte relazione con l’idea che viene un po’ da Dehlia Hannah di associare la creazione del mostro di Frankenstein alla crisi climatica: qualcosa che sfugge al controllo delle persone e poi si sparpaglia dappertutto. Tutto questo è presente nel lavoro e quindi sicuramente anche percepibile alle persone che partecipano. Poi c’è la parte più intima, più performativa. Quando ho riletto il libro avevo l’immaginario che abbiamo un po’ tutti, quello cinematografico – testa piatta, bulloni – mentre nella rilettura mi ha colpito tantissimo la sensibilità, l’empatia del mostro, il suo desiderio di conoscersi, di capirsi, di comunicarsi, come se avesse una tenerezza che non ricordavo assolutamente.”
Il pubblico co-autore dello spettacolo
Lo spettacolo si snoda, in effetti, su questi due binari: un senso di precarietà per l’immersione in qualcosa di più grande e l’osservazione del rapporto difficile, talvolta doloroso, tra le due performer, impegnando il pubblico su più fronti.
“Secondo me i pubblici devono essere abituati a più lingue, a più mondi, a più forme di comunicazione differenti e quindi anche avere dei sovratitoli non dovrebbe essere un problema – afferma Andreatta –. Sicuramente, però, avere due performer, da un punto di vista della struttura dello spettacolo, significa anche avere due derivazioni di Mary Shelley stessa o una sua allucinazione: rappresentano due o più aspetti della stessa persona o più persone diverse, quindi l’effetto dell’uso delle due lingue ha un rapporto con la comunicazione molto forte.”
Andreatta sottolinea l’importanza del pubblico all’interno del suo spettacolo.
“Lo spettatore o la spettatrice per me sono parte del lavoro: manca qualcosa se le persone non partecipano, e non solo in termini quantitativi ma proprio in termini autoriali o meglio ancora co-autoriali. Il pubblico è davvero un coautore del lavoro. Anche l’inizio dello spettacolo va in questo senso, l’ingresso delle persone è fondamentale. Del resto rileggere Frankenstein lavorando su un immaginario differente è anche un chiaro statement di non avere interesse a una storia univoca o a un’interpretazione univoca.”
Questo passaggio è messo in scena anche attraverso un busto di cera bianco, riconducibile a Prometeo, che arde fino a consumarsi alla fine dello spettacolo.
“Rappresenta una certa idea di cultura classica che ha a che fare con il bianco e il nero, le linee di demarcazione, l’idea che ci sia il male e il bene, tutte quelle strutture rigide che non funzionano o funzionano solo per comodità, per una certa struttura. Queste strutture così binarie non appartengono al mostro, per esempio, perché il mostro è un’entità per eccellenza transitoria. Il riferimento è anche ad alcuni filosofi e ricercatori di un altro mondo, che non sono assolutamente binari, come ad esempio Preciado e tantissime altre persone che hanno fatto di questo una parte della loro battaglia anche culturale.”
Infine, sul ruolo che può avere il ripensarsi attraverso un’opera teatrale come questa nell’attuale crisi climatica Andreatta si dice refrattario a fissare esplicitamente paletti.
“Sicuramente – conclude – per me è importante vedere le reazioni estetiche a certe situazioni. Frankenstein è stato scritto nella situazione che adesso conosciamo, l’“anno senza estate” per l’eruzione del Tambora, ed è non solo una reazione estetica molto forte, ma anche un problema che ha molto a che fare con la percezione del proprio futuro: quando c’è difficoltà a vedere cosa accadrà ci si rivolge spessissimo all’arte, alla letteratura e a vedere come viene processata un’atmosfera. La mia posizione personale è presente in vari gradi in tutti i lavori che faccio, ma evito di definirla in maniera chiara perché vorrei che fosse il lavoro a definirlo per me.”