Dal 12 febbraio i booster anti-Covid sono temporaneamente sospesi per i cittadini del Regno Unito, secondo le raccomandazioni del UK Joint Committee on Vaccination and Immunisation. Saranno riaperte in primavera e autunno, ma solo per i soggetti a rischio di malattia severa, verso i quali saranno indirizzate le campagne vaccinali future. Queste decisioni potranno subire modifiche a seconda delle ultime evidenze scientifiche. Una decisione presa in seguito al plateau dell’adesione alla vaccinazione primaria, e al calo dei booster nella popolazione under-50.
Anche in Italia la popolazione sembra meno incline a sottoporsi a richiami frequenti, e l’adesione alla quarta dose è circa del 30% nella popolazione con priorità alla vaccinazione- con nette differenze regionali.
In altri Paesi l’adesione è ancora più bassa: secondo i dati del CDC, negli Stati Uniti solo il 15.8% della popolazione totale ha ricevuto il booster con il vaccino bivalente Comirnaty Original/Omicron BA.4-5.
Ora che circa il 70% della popolazione mondiale ha ricevuto almeno una dose di vaccino e i casi di infezione segnalati dall’inizio della pandemia superano i 750 milioni, è tanto importante, quanto complesso, capire la durata della protezione contro l’infezione e, soprattutto, contro la malattia grave, per pianificare al meglio le future campagne vaccinali. Inoltre, è fondamentale continuare a monitorare il profilo di sicurezza dei vaccini, che ad oggi si confermano generalmente sicuri, anche a distanza nel tempo e in una popolazione sempre più ampia.
L’immunità ibrida ci protegge meglio e – forse – più a lungo
Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto superiore di sanità (Iss), visto il rilevante numero di persone che ha avuto uno o più episodi di infezione da SARS-CoV-2 “Assieme all’immunità indotta da vaccinazione, adesso anche l’immunità associata ad una pregressa infezione è un elemento da prendere in considerazione quando si vuole misurare l’efficacia sul campo della vaccinazione”. Sull’immunità ibrida si concentrano ora molti studi, tra i quali la vasta meta analisi pubblicata sulla rivista Frontiers in Medicine lo scorso novembre, condotta dall’Università di Ferrara in collaborazione con l’Università di Bologna e la Sapienza di Roma. Questa ricerca ha rielaborato i dati provenienti da diciotto studi, includendo in totale oltre 18 milioni di pazienti distribuiti in diversi continenti: sei in America, sei in Europa, cinque in Asia e uno in Sud Africa.
Lo studio, che rimane ad oggi il più esteso nel suo genere, mostra due importanti risultati: in primis che la vaccinazione– anche una sola dose- dimezza il rischio di reinfezione rispetto ai soggetti che beneficiano della sola immunità naturale data da una precedente infezione. “E poi cosa ancora più importante, perché da un punto di vista clinico di maggiore rilevanza – aggiunge la prima autrice della ricerca Maria Elena Flacco, docente presso Dipartimento di scienze dell’ambiente e della prevenzione dell’Università di Ferrara – è stato che il rischio di avere poi il Covid-19 severo era ulteriormente dimezzato”.
Anche secondo il rapporto dell’Iss, a parità di fascia di età e di condizione di pregressa infezione, in tutte le classi di età (dai dodici anni in su), si osserva una riduzione del rischio di malattia grave associato alla vaccinazione.
Inoltre, secondo la meta-analisi dell’Unife, questa protezione sembra mantenersi fino a dodici mesi – un’informazione rilevante per la pianificazione delle future vaccinazioni.
Visto il panorama immunologico complesso dei singoli individui, identificare l’estensione esatta della copertura data dall’immunità ibrida, in termini sia di durata che di livello di protezione, non è semplice. Tuttavia, i risultati degli studi finora puntano tutti nella stessa direzione e sono concordi sul fatto che il vaccino diminuisce il rischio di infezione e malattia grave. Questa protezione aumenta in combinazione con l’immunità naturale e non sembra rilevante l’ordine di immunizzazione.
I vaccini non aumentano il rischio di effetti indesiderati gravi
Assieme alla farmacovigilanza sul territorio, continuano le ricerche per analizzare il profilo di sicurezza dei vaccini, in studi con campioni sempre più ampi e portate avanti sempre più a lungo per valutarne gli effetti nel tempo.
In uno studio retrospettivo, frutto della collaborazione tra l’università di Ferrara, Bologna e l’Asl di Pescara, i ricercatori non hanno riscontrato nessun aumento di eventi avversi gravi, specialmente cardiovascolari e polmonari. Questa ricerca, pubblicata a fine dicembre sulla rivista Vaccine, è al momento l’unica al Mondo ad aver seguito il campione oggetto di studio per più di un anno e ha coinvolto 316.315 persone sopra i sei anni della Provincia di Pescara.
Nello studio sono stati analizzati quattordici diversi effetti avversi gravi, basandosi su quelli maggiormente riportati nei trial clinici dei vaccini di Pfizer e Moderna, tra i quali infarto, ictus, arresto cardiaco, miocardite, pericardite e trombosi. “Quando abbiamo visto i risultati è stato veramente un sospiro di sollievo” ha detto Flacco, prima autrice dello studio. In questo studio osservazionale, i ricercatori hanno ricostruito la storia clinica nei dieci anni precedenti la vaccinazione, per aggiustare il profilo di rischio clinico di base dei soggetti, eliminando in questo modo un enorme numero di potenziali fattori di confondimento dei risultati.
Flacco precisa che “studi come il nostro non possono e non vogliono negare il fatto che vi siano stati dei casi isolati attribuibili al vaccino, perché ci sono stati. D’altronde le attività di farmacovigilanza servono a questo.” Aggiunge però che lo studio indica “chiaramente un dato rassicurante, perché mostra che nei grandi numeri questo rischio aumentato nei vaccinati effettivamente non c’è.”
I ricercatori hanno intenzione di continuare il monitoraggio “sia per aumentare il follow up, sia per provare a stratificare ulteriormente le analisi per capire se ci sono dei particolari sottogruppi di popolazione dove magari si individua un rischio più elevato, al momento effettivamente no.”
FDA valuta il vaccino annuale anti-Covid
Quali sono i piani per il futuro per garantire una protezione contro SARS-Cov2, evitando al contempo di dover buttare dosi di vaccino inutilizzate? A fine gennaio, la Food and Drug Administration (FDA) ha proposto un’immunizzazione annuale per la popolazione generale, con un vaccino aggiornato annualmente come per l’influenza. Questa soluzione potrebbe semplificare il programma vaccinale e aumentare l’adesione, ma secondo i ricercatori dell’FDA vaccine advisory panel non è detto che la tempistica stagionale dell’influenza corrisponda esattamente a quella di SARS-CoV-2, che lo scorso anno ha avuto picchi anche in estate.
Occhi ancora aperti sulla sicurezza della co-somministrazione dell’antinfluenzale e anti-Covid: per il momento non sono state riportate particolari complicazioni durante le due passate stagioni influenzali. Tuttavia, durante gli approfondimenti in seguito alla segnalazione del CDC VDS è emerso che, nella maggior parte dei potenziali casi che collegavano il vaccino anti-Covid al rischio di ictus, era stato somministrato in contemporanea anche il vaccino antinfluenzale. L’FDA ha dato quindi il via a uno studio per approfondire questo potenziale rischio della co- somministrazione.