Sono stati 104 i casi di alluvioni e allagamenti causati da piogge intense in Italia nel 2022, secondo l’ultimo bilancio dell’Osservatorio città clima di Legambiente. Ma argini e vasche di laminazione artificiali non sono sempre la soluzione migliore per adattarsi ai cambiamenti climatici in corso. Per ridurre il rischio idrogeologico, infatti, occorre ridare spazio ai fiumi, ridurre le artificializzazioni e privilegiare soluzioni basate sulla natura.
La nuova strategia di adattamento ai cambiamenti climatici, adottata dalla Commissione europea nel 2021 per rendere i Paesi europei più resilienti agli inevitabili impatti, prevede di ridurre le soluzioni “grigie” e privilegiare quelle “verdi” perchè multifunzionali, “senza rimpianti”, capaci di offrire contemporaneamente benefici ambientali, sociali ed economici. In particolare, la gestione delle risorse idriche, chiamata a mitigare fenomeni opposti di siccità e piogge estreme, deve prevedere soluzioni flessibili nature-based.
I limiti delle soluzioni “grigie”
Le soluzioni “grigie” al rischio idrogeologico come invasi di accumulo, casse di espansione e innalzamento degli argini sono opere di difesa idraulica che possono essere necessarie in molti casi, ma spesso non sono sufficienti o possono diventare addirittura controproducenti.
“Gli interventi tradizionali di tipo strutturale – afferma ad Agenda17 Laura Leone, presidente del Centro italiano per la riqualificazione fluviale (Cirf) – in molti casi hanno delocalizzato il problema. I sistemi di regimazione delle acque sono progettati per l’allontanamento delle acque nel minor tempo possibile dalle aree di monte a quelle di valle.”
Le casse di espansione, ad esempio, servono per ridurre la portata durante le piene tramite lo stoccaggio temporaneo di parte del volume dell’onda di piena.
“Il problema – avverte Leone – è che hanno una soglia di attivazione con un valore specifico di piena deciso da progetto: se i livelli di portata sono inferiori a quella soglia, la cassa rimane vuota e l’argine cementato di fatto velocizza il flusso verso valle.”
Può capitare, quindi, che l’obiettivo di allontanare le acque dai centri abitati a monte incrementi il rischio di esondazione a valle. Inoltre la falsa sensazione della “messa in sicurezza” del territorio ha innescato un circolo vizioso: pensando di essere ben difesi si è, di fatto, continuato a costruire, aumentando il numero di beni esposti all’esondazione e quindi il livello di pericolosità locale. Per mitigare gli effetti delle piogge rapide e abbondanti sono auspicabili soluzioni capaci di rallentare a monte il flusso, rimettendo al centro l’intero bacino idrografico, con fiumi e affluenti.
Individuare le aree di esondazione naturale in accordo con gli agricoltori
Adottando una visione integrata dell’intero bacino, si possono prevedere zone di esondazione controllata delle acque, in particolare lungo il reticolo minore.
“Riconnettere i fiumi alla loro piana inondabile – spiega Leone – può ridurre il rischio a valle: l’acqua viene trattenuta e si riduce il picco di portata. Se poi queste ampie aree sono vegetate si può ottenere come ulteriore risultato l’infiltrazione delle acque in falda, mitigando il problema della siccità, l’altra faccia dell’impatto dei cambiamenti climatici sulle risorse idriche.”
Questo tipo di soluzione “verde” è considerata una misura di adattamento win-win perché da un lato si abbattono gli impatti delle piene e, dall’altro, si rimettono in moto i servizi ecosistemici forniti dal corso d’acqua.
“L’individuazione di queste aree di laminazione naturale – continua Leone – deve prevedere una fase di concertazione con chi il territorio lo vive e ne riceve sostentamento. Primariamente agli agricoltori deve essere riconosciuto il servizio ecosistemico che svolgono anche attraverso una politica di incentivi e indennizzi per le aree lasciate improduttive o soggette a frequenti inondazioni. È inoltre necessario accrescere la consapevolezza in tutta la popolazione dei benefici forniti dal fiume: sulla biosfera si fonda infatti l’intera società e la sua economia.”
Il “respiro” del fiume: ripristinare la vegetazione e i sedimenti in alveo
“L’ecosistema fluviale in equilibrio con la sua piana inondabile – specifica Leone – è capace di attivare, in tempi non lunghi, una dinamicità vegetazionale legata ai ritmi idrologici di magra e di morbida, quello che chiamo il “respiro” del fiume. Lasciare spazio al fiume non significa abbandonarlo a se stesso, bensì permettergli di far evolvere la sua vegetazione con una propria dinamica temporale ed eventualmente intervenire laddove si creino effettive criticità.”
La vegetazione in alveo ha un ruolo fondamentale sia per l’adattamento che per la mitigazione dei cambiamenti climatici. Da una parte, infatti, incide sul rallentamento del flusso di piena, sulla diminuzione della temperatura dell’acqua e sull’infiltrazione in falda; dall’altra contribuisce allo stoccaggio del carbonio e al ripristino della biodiversità.
Tra le misure tradizionalmente adottate per la gestione del rischio alluvione c’è anche l’escavazione di sedimenti con l’obiettivo, tra gli altri, di incrementare la portata idrica, ma anche l’estrazione di inerti può avere impatti negativi.
“La riduzione del trasporto solido indotta dall’effetto trappola delle escavazioni o dagli sbarramenti fluviali – conclude Leone – contribuisce a incidere gli alvei, ad aumentare la velocità di scorrimento delle acque e a creare terrazzi al posto di aree inondabili. Ripristinare l’equilibrio dei sedimenti in alveo e abbassare i terrazzi riportandoli all’altezza del corso d’acqua sono altre azioni praticabili per rallentare il deflusso delle acque e ridurre il rischio idraulico.”