“Se da un lato COP27 (Conference of Parties) è stata deludente rispetto a quanto si sarebbe potuto fare, dall’altro aver ammesso l’ipotesi di compensare le conseguenze del cambiamento climatico è un passo importante dopo decenni di stallo da questo punto di vista” dichiara ad Agenda17 Federico Frattini, docente di Storia economica presso l’Università di Ferrara.
Il fondo “Loss and Damage” mira infatti a sostenere i danni provocati nei Paesi più vulnerabili sia dagli eventi estremi sia da condizioni climatiche durature, come l’innalzamento della temperatura e del livello del mare, l’acidificazione degli oceani, la perdita di biodiversità o la degradazione delle foreste.
Ad averlo chiesto sono stati in particolare i Paesi del G77, un’organizzazione delle Nazioni Unite composta da 134 Paesi in via di sviluppo, più la Cina. Un buon sostegno è arrivato dall’Unione Europea, ma non mancano le difficoltà, ad esempio con gli Stati Uniti tendenzialmente contrari, soprattutto se si tratterà di contribuire in base alle responsabilità storiche nelle emissioni, e la Cina, che risulta ancora un Paese in via di sviluppo e, quindi, potrebbe non rientrare tra i Paesi finanziatori.
Inoltre, come ribadito da Legambiente, sarà fondamentale rivedere l’intera architettura della finanza climatica, soprattutto in un’ottica di maggior giustizia climatica. Purtroppo, infatti, si è riconfermato anche per il 2020 il mancato raggiungimento degli obiettivi di finanziamento ai Paesi in via di sviluppo, che si sono fermati a 83 miliardi di dollari, contro i 100 previsti e necessari.
Responsabilità climatica: non solo nella produzione, ma anche nel consumo
“Ci sono due considerazioni da fare – continua Frattini –, sul ruolo della Cina e sul modo di intendere il fondo. Da un lato la Cina ha le sue ragioni a lamentarsi, ma anche le economie avanzate hanno le loro nel chiederle di finanziare il fondo.
Uno dei grandi dibattiti quando si parla di finanza climatica riguarda infatti l’identificazione delle responsabilità e ci sono due modi per farlo. Il primo, più usato, è la responsabilità della produzione: un Paese genera una certa quantità di emissioni perché produce una certa quantità di beni e servizi. Questa visione però non rappresenta la logica economica dello sviluppo in un’epoca di profonda globalizzazione.
E quindi l’altro modo guarda il lato della domanda: un Paese produce una certa quantità di beni, che però sono in buona parte consumati in altri Paesi, che diventano di fatto i beneficiari di quelle emissioni. In questo modo cambia notevolmente la posizione di Stati esportatori come la Cina, che è tra i principali inquinatori dal punto di vista della produzione ma non dei consumi.”
Tutti pagano e tutti beneficiano: il fondo come un’assicurazione
Per rendere operativi i nuovi accordi di finanziamento e il fondo Loss and Damage, i Governi hanno concordato l’istituzione di un “comitato di transizione” che dovrà riferire alla COP28 di Dubai il prossimo anno. La prima riunione di questo comitato dovrebbe tenersi entro la fine di marzo 2023.
“La chiave – afferma il docente – è trovare un meccanismo per capire come identificare l’onere di contribuzione e al momento è una partita aperta. Se la mettiamo in termini di voler identificare a priori la responsabilità, e quindi il dovere di contribuire, rischiamo di veder fallire il fondo.
Anzitutto perché questa responsabilità cambia nel tempo: ad esempio, se la Cina proseguirà nel suo sviluppo industriale, per quanto si sforzi di adottare tecnologie meno impattanti continuerà ad ampliare il suo contributo al cambiamento climatico e così per tutti i Paesi in via di sviluppo.
Per questo bisognerebbe andare oltre la contrapposizione tra chi paga e chi prende e focalizzarsi sulla parola ‘condivisione’. Il fondo deve servire per intervenire nelle situazioni di crisi che si creano a causa del cambiamento climatico, i cui effetti sono in qualche modo occasionali e casuali. Una delle prospettive più condivise è perciò pensarlo come una sorta di assicurazione: l’idea, cioè, è che tutti i Paesi paghino un premio, proporzionato al contributo nelle emissioni, e poi possano beneficiare del fondo a prescindere dal premio versato.
La questione, piuttosto complessa in realtà, è capire se, oltre a parametrare il contributo all’attuale intensità di inquinamento, tenere conto anche dello storico di contribuzione.
In ogni caso, credo che questa impostazione permetterebbe davvero di farlo funzionare. Il fondo infatti ha senso se riesce a contrastare gli effetti del cambiamento climatico che sono ormai inevitabili e che, soprattutto, amplificano mostruosamente le disuguaglianze. È quindi vitale soprattutto per i Paesi con maggior ritardo di sviluppo, dal momento che un certo livello di ricchezza aiuta a rendere resilienti, mentre le economie più arretrate non sono in grado di riprendersi.”
Il fondo può diventare un incentivo allo sviluppo sostenibile
“La logica – prosegue – dovrebbe essere ‘non perdiamo dei pezzi per strada mentre ci impegniamo a cambiare lo sviluppo in una certa direzione’. I fenomeni climatici coinvolgono tutti e tutti contribuiscono alle emissioni, quindi nessun Paese dovrebbe essere a priori un donatore o un ricevitore netto.
Inoltre, se si è capaci di aggiustare le quote da pagare in funzione di come procede lo sviluppo, il fondo diventerebbe anche un incentivo alla sostenibilità. Ad esempio, potrebbe essere uno strumento per chiedere di pagare per il ritardo nella riduzione delle emissioni richiesto da Paesi come Cina e India: se vogliono accedere al fondo, devono pagare la loro quota più un extra che dipende dalla decisione di disattendere a determinati obiettivi condivisi, proprio perché ciò aumenta il rischio di eventi che dovranno essere coperti dal fondo stesso.
Quindi di spazio per lavorare ce n’è. Il fondo apre alla possibilità di creare un meccanismo di incentivi e disincentivi del quale potrebbe beneficiare il sistema degli investimenti sostenibili, che ad oggi sono spesso rischiosi e costosi, perché riguardano tecnologie di frontiera. Tuttavia, più crescono gli incentivi e più è probabile che le attività economiche e quelle finanziarie possano orientarsi più rapidamente.
Finora la transizione è funzionata prevalentemente per regole e questo non aiuta a far percepire l’opportunità dello sviluppo sostenibile. Riuscire ad agire invece attraverso un sistema di incentivi e disincentivi, che spinge ad agire in base alle convenienze, e non a divieti, potrebbe dare un importante contributo alla transizione. Bisogna cioè riuscire a orientare la finanza non facendo leva su una sensibilità altruistica, ma facendo sì che la sostenibilità diventi la destinazione conveniente.”
L’approccio del Brasile è affascinante, ma difficile da estendere
Infine, tra gli interventi più rilevanti c’è stato quello del Presidente eletto del Brasile Lula, che ha ribadito l’impegno del suo Paese verso uno sviluppo totalmente sostenibile e la possibilità di una crescita economica e di inclusione sociale in alleanza con la natura, anziché in contrasto con essa.
“I modelli di sviluppo alternativi ci sono. Quello più estremo è la decrescita felice, ma non credo possa funzionare: quando parliamo di sviluppo sostenibile, infatti, solitamente ci concentriamo sulla dimensione più urgente, cioè la riduzione dell’impatto climatico. In realtà l’idea di sostenibilità è a 360 gradi: dobbiamo cioè ottenere uno sviluppo che non vada in crisi per questioni non solo climatiche, ma anche sociali e politiche.
In molti casi, invece, questi modelli non riescono a ristrutturare un fenomeno di massa perché mantengono una dimensione peculiare di località, che fatica ad affermarsi se anche il sistema globale non la riscopre.
Certamente riscoprire questa dimensione locale, da tanti punti di vista (modelli di consumo, di produzione, di relazioni), potrebbe essere una chiave importante per rendere lo sviluppo più sostenibile ed è l’aspetto che più condivido delle posizioni latino-americane.
Il problema è che tutto ciò passa per il modo in cui le persone percepiscono la loro dimensione individuale e relazionale: entrano cioè in gioco elementi culturali, sociologici e antropologici. Si tratta di un cambiamento più profondo, che parte dal riscoprire la vita di quartiere e la dimensione di comunità, tipica di quei modelli. Però si esce dal tema economico e finanziario: sono le persone, e con esse le politiche globali, che devono cambiare stile di vita” conclude Frattini.