“RUNIPace è un’esperienza multidisciplinare perché la pace è una cosa complessa e le competenze necessarie per costruirla sono numerose. Capire quindi come le scienze possono contribuirvi significa anche puntare la lente sul modo in cui noi docenti e ricercatori insegniamo e facciamo ricerca, con l’obiettivo poi di prendere la parola nel dibattito pubblico e nell’insegnamento.” Questo è l’approccio al tema della pace entro cui si è mosso l’intervento di Enza Pellecchia, docente di Diritto privato e direttrice del Centro interdisciplinare di Scienze per la pace (Cisp) presso l’Università di Pisa, e coordinatrice della Rete universitaria per la pace (RUNIPace) al convegno “Per un Mondo libero dalle armi nucleari” tenutosi mercoledì presso l’Università di Ferrara.
“A Pisa – specifica Pellicchia – nel 1998 un gruppo di docenti di aree disciplinari diverse, ma prevalentemente di scienze dure, iniziò a porre un interrogativo: cosa possono fare le scienze, comprese quelle umane e sociali, per contribuire alla costruzione della pace? Si trattava di un interrogativo non banale, visto che già c’era la risposta a un’altra importante questione: qual è il contributo che le scienze hanno dato alla guerra?”.
La scienza ha contribuito alla guerra, ma ora deve aiutare il disarmo
“Pace non significa assenza di conflitto – afferma Pellecchia – perché nell’assenza di conflitto può esserci comunque una situazione di violenza, anche strutturale. Questa è una pace negativa: quella positiva è una condizione in cui si verificano il rispetto dei diritti umani e sociali, situazioni di uguaglianza e il rispetto dell’ambiente.
Per realizzarla, un Mondo libero dalle armi nucleari è non solo possibile, ma necessario. Storicamente il contributo delle scienze alla guerra è stato enorme, con la realizzazione di strumenti di guerra sempre più offensivi e devastanti ma anche nella ricostruzione storica e in narrazioni che hanno raccontato la pace come assenza di guerra e la diplomazia come continuazione della guerra con altri metodi.
Per questo, a ridosso della Guerra del Golfo, si iniziò a riflettere su cosa possono fare le scienze per la pace. Fu un’iniziativa dal basso, avviata da docenti che iniziarono a ragionare insieme, molti dei quali già membri dell’Unione degli scienziati per il disarmo (Uspid).”
Dopo Hiroshima la corsa agli armamenti, ma i sopravvissuti sono la memoria dell’atomica
Il tema delle armi nucleari esiste dal 1945, ma solo ora, dopo tanto tempo dai grandi movimenti degli anni Ottanta e dalla crisi dei missili di Cuba, sembra tornato presente nel dibattito pubblico.
“Quando si parla di nucleare – prosegue – pensiamo subito a Hiroshima e la prima immagine che ci viene in mente è quella del fungo atomico, diventata un’icona ma che in realtà occulta più di quanto rivela.
Pochi infatti hanno raccontato cosa c’era sotto quel fungo e abbiamo dovuto aspettare che gli ‘hibakusha’, cioè i sopravvissuti, iniziassero a parlare. Dovremmo ascoltarli e tenere presente il nostro debito di gratitudine nei confronti loro e di tutti i sopravvissuti ai test nucleari nel Mondo: perché è grazie alla loro tenacia e la capacità di trasformare la tragedia in missione che non è caduto l’oblio sulle armi nucleari.
Hiroshima e Nagasaki rappresentano un crocevia della scienza che inizia a riflettere su di sé, di una narrazione piena di bugie, dell’inizio della corsa agli armamenti, e anche del problema di porvi un argine.”
È qui allora che Pellecchia ha approfondito il ruolo della scienza: “il contributo delle scienze alla realizzazione dell’atomica è stato decisivo, con il progetto Manhattan che fece della prospettiva di un’arma che avrebbe potuto determinare gli assetti internazionali la sua ragion d’essere.
Tuttavia, nel momento in cui fu evidente cosa, grazie alla scienza, era stato possibile fare in termini di morte e distruzione, iniziò anche il processo inverso: la riflessione degli scienziati sulla loro responsabilità sociale.”
La teoria della deterrenza non tiene conto dell’errore umano
In parallelo si impose anche la teoria della deterrenza, che considera le armi come strumento cui affidare il mantenimento della pace, inevitabilmente accompagnata dall’inizio della proliferazione.
“La convinzione era – prosegue la docente – che questo equilibrio del terrore avrebbe garantito la pace. Era la teoria della ‘distruzione mutua garantita’ (Mutual Assured Distruction, MAD): l’acronimo è significativo, perché devi essere mad, cioè pazzo, per combattere una guerra nucleare se sai che, usando un’arma nucleare contro uno Stato che a sua volta la possiede, sarai tu stesso distrutto. Ma pazzo, aggiungerei, anche se affidi la salvezza dell’Umanità e il mantenimento della pace a uno strumento che può distruggere entrambe.
Il paradigma della deterrenza, però, ammesso che abbia una qualche bontà, non contempla l’errore umano, l’esplosione non intenzionale, il terrorismo nucleare: variabili che gli scienziati temono più di ogni altra cosa.
Noi pensiamo che i siti dove si conservano le armi nucleari siano sicurissimi, ma la nostra storia è costellata da tragedie scampate solo per buona fortuna. Fu il generale George Lee Butler, responsabile delle armi nucleari americane durante la presidenza Bush, ad affermare: ‘abbiamo evitato un olocausto nucleare per qualche combinazione di abilità, fortuna e intervento divino, e temo che quest’ultimo sia stato preponderante’.
Il paradigma della deterrenza presuppone quindi attori razionali, che prendono decisioni razionali: non prevede malfunzionamenti o errori, e tutto ciò descrive bene lo stato di follia e di inaccettabilità del pericolo che corriamo.”
Passi avanti a livello giuridico, ma non bastano
Un freno alla proliferazione nucleare arrivò a livello giuridico. Nel 1963 il Trattato di messa al bando parziale degli esperimenti nucleari vietò i test nell’atmosfera e sui fondali marini, consentendoli solo nel sottosuolo. Negli anni Novanta fu poi esteso a tutti gli esperimenti, ma non è mai entrato in vigore.
“Un pilastro importante – sottolinea Pellecchia – è nel 1970 il Trattato di non proliferazione, che fu una sorta di fotografia dell’esistente, ma che ha comunque contributo a frenare la diffusione degli armamenti.
Particolarmente importante è l’articolo 6, che prevede l’obbligo di avviare trattative in buona fede per lo smantellamento totale e definitivo degli arsenali nucleari: il disarmo è dunque già nell’orizzonte del Trattato, ma non è mai stato attuato.
Ci sono stati trattati bilaterali e passi avanti tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ma in un Mondo costellato da divieti, non c’era quello per le armi nucleari. È su questo che hanno iniziato a lavorare le organizzazioni della società civile, portando il dibattito, all’inizio degli anni Duemila, dal piano geopolitico di difesa degli Stati a quello umanitario dell’inaccettabilità delle conseguenze di un’esplosione nucleare, anche non intenzionale.
Grazie poi all’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (ICAN), che arrivò all’Organizzazione delle nazioni unite, nel 2017 viene approvato il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari, che le rese illegali.
Non ha però ricevuto le adesioni degli Stati nucleari, nemmeno l’Italia, che si è giustificata dichiarandosi a favore di un approccio graduale. Noi ospitiamo tra le quaranta e le sessanta testate statunitensi e le stanno rinnovando in un’opacità che, su questa questione, ha caratterizzato tutti i Governi della Repubblica.”
Il ruolo dell’Università e della scienza: fornire dati e informazioni chiare
“Tutti noi, come cittadini ed esseri umani, abbiamo il diritto – conclude la coordinatrice della Rete – di parlare di queste questioni. L’università in particolare deve dare informazioni chiare, precise, non demagogiche né ideologiche ma argomentate: è un dovere che non appartiene a una prospettiva rivoluzionaria, ma alla nostra missione di docenti.
In un’epoca in cui cresce il sentimento antiscientifico, inoltre, diventa ancora più forte il dovere di fare scienza in chiave divulgativa e in modo ostinato, anche ascoltando le ragioni che portano alcuni cittadini verso l’anti scienza.
In questo momento la campagna “Italia, ripensaci!”, promossa dalla Rete pace e disarmo e da Senzatomica, sta funzionando da collettore di tante iniziative distribuite a livello nazionale. Mi sentirei di incoraggiare a raccordarsi ad essa, perché coinvolge anche molte competenze scientifiche in grado di supportare in maniera autorevole iniziative di divulgazione.”
Al termine del convegno l’invito a una collaborazione interdisciplinare è stato accolto da Alfredo Mario Morelli e Giuseppe Scandurra di Unife, che hanno ribadito la crescente importanza della Terza missione anche all’interno dell’Ateneo ferrarese e la volontà di fare rete con le tante realtà culturali del territorio, in un Laboratorio per la pace che sia dibattito, cultura e coscienza per tutta la società.