Secondo la Lancet Commission, che ha recentemente pubblicato il report del lavoro di centinaia di esperti iniziato nel 2020, i pilastri per una strategia di successo contro il diffondersi di un’infezione come quella che ha causato la pandemia Covid-19 sono cinque: prevenzione, contenimento, un servizio sanitario efficiente, eguaglianza nella distribuzione di rischi e sacrifici, innovazione e condivisione delle scoperte su scala globale.
Ma per realizzare tali obiettivi, continua il rapporto, è necessaria una ben precisa cornice etica, fondata sull’«orientamento di individui e governanti verso i bisogni della società presa nel suo insieme, e non verso i più ristretti interessi individuali». Questa prospettiva viene definita ‘prosocialità’, ed è identificata come fattore centrale per la realizzazione di una società democratica, cooperativa e giusta – nonché elemento essenziale soprattutto nell’affrontare una sfida di portata mondiale come una pandemia.
La mancanza di prosocialità ha minato la risposta alla pandemia da Covid-19
La carenza di prosocialità nel contesto internazionale è risultata evidente fin dalle prime settimane di questa pandemia, periodo in cui sono stati compiuti molti errori fatali: in primis, il ritardo da parte delle autorità cinesi nel comunicare il rilevamento di un’infezione sconosciuta nella Provincia di Wuhan.
La prima segnalazione ufficiale fu presa in carico dall’Oms il 31 dicembre 2019, ma si ritiene che il virus circolasse da settimane, se non mesi. Tempo prezioso è stato perso anche a causa dell’esitazione della stessa Oms nel dichiarare la gravità della situazione e nel pubblicare linee guida che riconoscessero l’alta probabilità di trasmissione del virus per via aerea, l’efficacia di misure di contenimento come l’utilizzo delle mascherine, l’importanza di ridurre, per quanto possibile, viaggi e spostamenti.
“Io sono una persona che si sposta molto a livello globale, direi che è stato decisamente schizofrenico il modo in cui i Paesi hanno affrontato i protocolli di viaggio – sottolinea ad Agenda17 Emidia Vagnoni, docente di Economia aziendale e management, e Direttore del Centro di ricerca economia sanitaria presso Università di Ferrara -. Su questo è mancata la guida di un’autorità internazionale. Si sperava che l’Oms favorisse l’adozione di una strategia condivisa, potesse dare indicazioni e sensibilizzare in maniera efficace i Paesi e poi, a cascata, la popolazione, ad esempio sull’uso appropriato dei device di contenimento: si passava da mascherine FFP2 allo straccetto di pezza.”
Ben lontane da un’attitudine prosociale sono state anche le misure adottate dai singoli Stati, che hanno agito in ordine sparso, senza dare priorità alla collaborazione nella diffusione dei dati, nella concertazione di politiche sugli spostamenti transfrontalieri, nella collaborazione scientifica e medica.
Quel che non è stato adeguatamente compreso – ricordano gli autori del rapporto – è che, in una situazione di urgenza globale, che coinvolgeva in modo diretto tutta l’Umanità, “nel controllo della trasmissione del virus, ogni Paese è dipendente dalle azioni degli altri, e dunque un approccio cooperativo è essenziale per raggiungere l’obiettivo desiderato.”
“Paesi a economia sviluppata che erano stati poco interessati dalle precedenti pandemie si sono mostrati impreparati e poco reattivi. Inoltre, la pandemia ha fatto emergere un Mondo a diverse velocità anche in funzione delle disponibilità economiche” rimarca Vannoni.
Approccio efficace di Cina e Paesi del Pacifico occidentale, a differenza di Stati Uniti ed Europa
Analizzando le decisioni politiche su scala regionale, i commissari hanno rilevato una differenza piuttosto marcata tra la strategia di soppressione dell’infezione abbracciata dalla Cina e dai Paesi del Pacifico occidentale (già provati, vent’anni fa, dall’epidemia di SARS e, dunque, più preparati e inclini ad applicare misure comunitarie per contrastare un’infezione respiratoria), e la strategia – ben più blanda – di contenimento adottata soprattutto dai Paesi più ricchi di Europa e Nord America, dove per ben tre volte (nell’estate 2020, nell’estate 2021 e durante l’anno seguente, dopo la cosiddetta “quarta ondata”) le misure sanitarie di comunità sono state largamente abbandonate, portando così a successive recrudescenze nella diffusione dell’infezione.
Un elemento di fallimento nella gestione della pandemia, sottolinea Vagnoni, è che molti Paesi hanno consentito agli individui di anteporre l’interesse individuale a quello della collettività.
Fallimenti: Svezia senza misure restrittive per assecondare le pressioni sociali e interventi tardivi in India
“La mascherina facciale – prosegue Vagnoni – è sì un elemento protettivo ma è al tempo stesso qualcosa che limita la libertà, così come le cosiddette bubbles, ovvero le ‘bolle protettive’ attivate per la prima volta in Norvegia per consentire di individuare facilmente eventuali contagi evitando la quarantena dell’intera scuola. All’inizio in assenza di indicazioni forti da parte dell’Oms, anche un Paese come la Svezia a economia sviluppata, con buonissime risorse economiche e culturali, ha finito con assecondare le pressioni sociali per non adottare misure restrittive, salvo poi cambiare direzione e promuovere attivamente la vaccinazione come sta succedendo tuttora”.
La docente aggiunge che alcune differenze possono essere legate anche a fattori socio-culturali: nelle popolazioni orientali, ancor prima di questa pandemia, era già diffuso l’utilizzo delle mascherine come dispositivi di protezione, non solo per se stessi ma soprattutto per gli altri. In caso di influenza o raffreddore “è una grande mancanza di rispetto non mettersi la mascherina – ricorda Vagnoni, che ha alle spalle dieci anni di esperienza ad Hong Kong -. Quindi c’è una dimensione secondo me comportamentale, che probabilmente ha fatto sì che, in alcuni Paesi, alcune misure fortemente stringenti venissero accettate dal punto di vista della società e questo ha portato probabilmente a dei vantaggi. È il caso anche dell’Australia che conta una forte presenza di popolazione di origine orientale.”
Secondo la Lancet Commission vi sono state alcune situazioni in cui la mancanza di interventi tempestivi ha portato a risultati drammatici. È il caso dell’India, dove l’emersione della variante Delta ha coinciso con eventi politici e sociali nei quali la popolazione del Paese si è aggregata in masse, contribuendo così ad una vastissima diffusione del contagio. L’impreparazione del Governo, la mancanza di fondi e di infrastrutture hanno poi fatto il resto: il Governo indiano ha dichiarato che nella prima metà del 2021 vi sono stati circa 20 milioni di contagi e 250mila decessi; secondo le stime, invece, le infezioni potrebbero essere state 417 milioni, e i morti 1,6 milioni nel solo periodo compreso tra aprile e luglio 2021.
In tutto il Mondo, infine, il 2022 ha coinciso con un generale abbandono delle norme precauzionali, decisione che ha coinciso con il diffondersi della variante Omicron, meno virulenta ma altamente contagiosa.
I fallimenti nelle risposte alla pandemia
La riduzione o l’eliminazione delle misure anti-contagio è rischiosa – sottolinea la Lancet Commission – per almeno tre aspetti: in primo luogo la rilevante quota di popolazione non ancora immunizzata, in secondo luogo, perché l’immunizzazione stessa offre una protezione parziale, che nel tempo decade; in terzo luogo, perché, in concomitanza con l’affievolirsi dell’immunità, è probabile che sorgano nuove varianti del virus che potrebbero rendere la fine della pandemia ancora più lontana.
Infine, non bisogna sottovalutare il carico – economico, sanitario, psicologico – dell’alta incidenza di long Covid, “che distrugge l’educazione e i posti di lavoro, è causa di sofferenze fisiche e mentali per le persone colpite e per le loro famiglie, che rappresenta un considerevole fardello sui sistemi sanitari e mette a rischio la ripresa economica.”
Nel rapporto vengono identificati e analizzati i principali fallimenti nelle risposte nazionali alla pandemia, in primis il mancato tempismo nel notificare l’inizio dell’outbreak di Covid-19, nel riconoscere le principali vie di trasmissione e nell’implementare misure protettive di conseguenza. Inoltre vengono ricordate:
- mancanza di politiche pubbliche per affrontare l’impatto iniquo sulle comunità vulnerabili, compresi donne, bambini e lavoratori nei Paesi a basso e medio reddito;
- disinformazione sui social media che ha aumentato le disuguaglianze;
- sostanziale opposizione della popolazione alle normali misure sanitarie e sociali;
- incapacità di attingere alle scienze comportamentali e sociali per incoraggiare i cambiamenti nelle persone.
Disinformazione, fakes news, screditamento delle evidenze scientifiche hanno alimentato la sfiducia e la mancanza di coesione sociale
Durante la pandemia da Covid-19, uno dei principali ostacoli alla cooperazione sociale è stata la larghissima diffusione di notizie false e il costante screditamento delle evidenze scientifiche. I social media hanno giocato un ruolo centrale nel dare amplissimo spazio a informazioni errate e a vere e proprie campagne di disinformazione e misinformazione.
Questo ha causato – soprattutto nei Paesi più sviluppati, dove vi è un più marcato individualismo, e dunque una particolare attenzione alla tutela della libertà individuale – una grave “epidemia” di sfiducia nei confronti delle autorità politiche, spesso manifestata apertamente con eventi di protesta pubblica. Le raccomandazioni delle autorità sono state in una certa misura ritenute inaffidabili, e perciò disattese: un esempio per tutti l’esitazione di fronte alla possibilità di usufruire dei vaccini.
Le diseguaglianze a fronte della pandemia: anziani, malati cronici, ospiti di comunità chiuse, donne e bambini, addetti a servizi essenziali
Come è noto, questa pandemia non ha colpito tutti allo stesso modo. Sono stati registrati tassi di mortalità significativamente più alti tra le persone anziane (di età superiore ai sessantacinque anni), tra coloro che presentano comorbidità, tra chi soffre di disturbi fisici o mentali, tra coloro che vivono in contesti gregari (carceri, residenze ospedaliere, congregazioni), e tra i lavoratori essenziali, soprattutto gli occupati nel settore primario e nella sanità.
Non vanno poi dimenticati quanti sono stati esposti a rischi secondari come giovani, donne e bambini, nei quali è aumentata l’incidenza di problemi di salute mentale; moltissimi sono coloro che – dall’inizio della pandemia – sono stati colpiti dalle ripercussioni socioeconomiche delle chiusure e della contrazione della crescita economica.
Dal punto di vista sociale, il prezzo più caro è stato pagato da donne e bambini. Le prime, infatti, sono in prima linea – spesso, loro malgrado – nella gestione delle relazioni di cura, sia nell’ambito familiare che in quello lavorativo. L’emergenza pandemica ha forzato moltissime donne ad abbandonare il proprio lavoro per dedicarsi alla gestione familiare, e questo ha largamente aumentato la loro esposizione ad abusi e violenze, riducendo al tempo stesso la loro libertà e indipendenza economica.
I bambini hanno sofferto, seppur in modi diversi, della chiusura forzata delle scuole, disposta da 195 Paesi nel Mondo. Si stima che siano stati coinvolti circa 1,5 miliardi di bambini e ragazzi, causando “danni enormi a lungo termine e difficilmente recuperabili su di loro, sui loro genitori e sull’economia”. Per moltissimi, la chiusura degli edifici scolastici e, in molti casi, l’impossibilità di frequentare la scuola in modalità digitale ha significato un danno nel breve periodo, in termini di salute psicologica e affettiva, ma sembra che le conseguenze di questo evento avranno ripercussioni anche nel corso della loro vita futura: “Una stima della Banca mondiale suggerisce che questa generazione di bambini potrebbe perdere, a livello globale, circa 10mila miliardi di dollari in termini di guadagno nel corso della vita. La mancata formazione, inoltre, potrebbe aumentare i livelli di povertà educativa fino al 63% e spingere i Paesi ad allontanarsi ulteriormente dal raggiungimento degli obiettivi di riduzione della povertà educativa.”
Partenariati pubblico-privato per sviluppare vaccini in tempi record e finanziamenti d’emergenza
La Lancet Commission ha comunque sottolineato che la risposta al Covid-19 ha mostrato il meglio di sé in diversi aspetti della cooperazione internazionale: partenariati pubblico-privato hanno permesso di sviluppare più vaccini in tempi record: “plauso ai vaccini che in un batter d’occhio ci sono stati” ricorda Vagnoni.
Inoltre, Paesi ad alto reddito hanno intrapreso azioni per sostenere finanziariamente famiglie e imprese, ed è stato stanziato il finanziamento d’emergenza del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.
Secondo il Presidente della Commissione Sachs “abbiamo le capacità scientifiche e le risorse economiche” per raggiungere gli obiettivi della Commissione, “ma una ripresa resiliente e sostenibile dipende dal rafforzamento della cooperazione multilaterale, dal finanziamento, dalla biosicurezza e dalla solidarietà internazionale con i Paesi e le persone più vulnerabili.”
Come prepararsi ad affrontare una pandemia: preparedness e readiness
In conclusione, i componenti essenziali dei piani nazionali di preparazione alla pandemia secondo la Lancet Commission sono:
• prerequisito per sistemi sanitari efficaci e la salute pubblica è il miglioramento dell’assistenza sanitaria di base e l’accesso universale alla salute (prendersi cura di tutti);
• ampliamento dei sistemi sanitari pubblici basati sulla comunità, capaci di integrare l’assistenza sanitaria di base con la sorveglianza (test, tracciabilità, monitoraggio) l’investimento in manodopera qualificata;
•investimenti nella sanità pubblica e nell’alfabetizzazione scientifica, anche attraverso programmi educativi nelle scuole e nelle università, per proteggere il pubblico dalla disinformazione;
• leadership inclusiva e diversificata a tutti i livelli di risposta alla pandemia garantendo la parità di genere e includendo gli operatori sanitari, la società civile, esperti di diritti umani, esperti di genere e le competenze di scienziati sociali, politici e comportamentali;
• investimenti nel sostegno agli scienziati perché presentino le prove in modo più efficace e comprensibile ai decisori, supportandoli nell’interpretazione delle prove e nell’attuazione di raccomandazioni e policy basate sulla scienza;
• investimenti nella ricerca in scienze comportamentali e sociali per sviluppare e attuare interventi più efficaci e politiche per favorire l’adozione di comportamenti utili a ridurre la probabilità di trasmissione virale e le pandemie, aumentando la resilienza;
Oms da rafforzare e riformare. Ruolo insostituibile del sistema sanitario nazionale
“A livello globale – ricorda Vagnoni – sarà essenziale assicurare protocolli di intervento il più possibile condivisi e l’equità di accesso alle cure tra generi ed etnie non scontata anche a livello europeo.
Dopo quanto abbiamo vissuto con questa pandemia sembra incredibile dovere ancora convincere i Governi ad adottare delle misure condivise come auspica la Lancet Commission, che fa appello anche al G7 e al G20 anche per la creazione di un fondo supporto dei Paesi a basso e medio reddito, fortemente penalizzati dall’impossibilità di accesso ai vaccini. A tal proposito il G20 si dovrebbe far carico di provvedimenti che rendano accessibili anche ai Paesi più poveri le tecnologie di produzione dei vaccini, affrontando anche il tema della proprietà intellettuale delle stesse.”
“Quanto al ruolo dell’Oms per il futuro – prosegue la docente – riterrei importante un suo rafforzamento attraverso finanziamenti assicurati dai Governi con un minore intervento dei privati, garantendo la massima la trasparenza anche a garanzia dell’indipendenza dell’organismo, che deve agire essenzialmente in base a criteri scientifici per garantire i quali è indispensabile rafforzare anche il board scientifico.”
La Lancet Commission sottolinea inoltre l’importanza della copertura universale da parte dei sistemi sanitari che ricorda Vagnoni “noi italiani diamo per scontata, ma la copertura universale interessa appena una cinquantina di Paesi al Mondo, con una grossa concentrazione in Europa. Ne consegue che rafforzare i sistemi sanitari vuol dire non solo rafforzare quelli universali come il nostro, ma rendere universali quelli che non lo sono investendo di più nella sanità pubblica.”
“In Italia, il servizio sanitario nazionale è diventato centrato sull’ospedale, a scapito della sua componente territoriale – aggiunge Vagnoni -. I dipartimenti di sanità pubblica, ovvero i dipartimenti di prevenzione deputati alla prevenzione collettiva compresa la profilassi delle malattie infettive, in epoca pre pandemica si sono quasi svuotati. C’è bisogno di rafforzarli, recuperare competenze, fare investimenti per assicurare una maggiore capillarità di interventi sul territorio, le nuove tecnologie.”
“Il mio augurio per l’Italia – conclude – è che resti la centralità del nostro servizio sanitario nazionale pubblico. In alcuni ambiti può essere utile integrare col privato, ma deve restare fondamentalmente un servizio pubblico. È importante che si faccia tesoro dell’esperienza di questi anni per superare le differenze tra i servizi sanitari regionali garantendo un approccio unitario. Il Decreto Ministeriale 77/2022 ha gettato le basi, ora si tratta di tradurlo in qualcosa di operativo anche utilizzando le tecnologie digitali.
Mi auguro che l’Italia possa vincere questa sfida non solo per il bene degli italiani, ma anche come esempio per tanti altri Paesi che stanno affrontando le stesse difficoltà che affrontiamo noi.”
Anche in questa occasione la Prof. VAGNONI non si è smentita: chiara, puntuale e sincera. I miei complimenti