Il contesto
“Gli obiettivi ambientali dell’Agenda 2030 dell’Onu, l’Accordo di Parigi sul clima, le strategie europee e nazionali in materia di ambiente richiedono l’impegno concreto di tutte le componenti della società, a partire dalle istituzioni”. Questo l’incipit del recente Rapporto ambientale 2022 della Banca d’Italia.
L’emergenza ambientale e climatica che si sta imponendo sullo scenario globale oltre che nazionale – per l’Italia basterebbe ricordare i disastri ambientali di questi ultimi mesi: il distacco del ghiacciaio sulla Marmolada, l’alluvione che ha invaso l’isola di Stromboli, la recente tragedia delle Marche, senza considerare la siccità che quest’estate ha colpito anche la Pianura Padana e il Po –, lascia prevedere in maniera ormai sempre più nitida quali possano essere i pericoli causati dalla “sovrapposizione fra cambiamenti climatici, errori umani e cattiva amministrazione” (come afferma Maurizio Molinari su La Repubblica, nel suo editoriale Il clima contro I populismi del 18 settembre 2022) ed impone una riflessione non più rinviabile sugli strumenti, sugli interventi e prima ancora sullo stesso ruolo che la società, i partiti, le istituzioni, le amministrazioni pubbliche, gli stessi cittadini sono chiamati a svolgere.
Prendendo a prestito le parole del Presidente della Repubblica, “la sfida più grande della contemporaneità è la salvezza del Pianeta dallo sfruttamento di cui l’uomo stesso si è reso responsabile”; ed è una sfida rispetto alla quale si misurano, da un lato, i ritardi dei governi nazionali e delle stesse amministrazioni regionali e locali, e, dall’altro, le richieste di “protezione climatica” da parte specialmente delle nuove generazioni.
Sono in atto mutamenti profondi nella nostra società.
Entrati ormai in un’epoca di costante emergenza o di crisi permanente, alle istituzioni si richiede uno sforzo di adattamento, revisione e innovazione dei propri sistemi decisionali per far fronte anche, ma non solo, alle minacce ambientali che incombono sull’umanità intera.
È in gioco il ruolo della scienza, il suo posizionamento rispetto ai decisori pubblici e alle stesse responsabilità – non solo politiche – che questi ultimi sono chiamati ad assumere nei confronti dei propri cittadini. Ed è in gioco anche il ruolo degli stessi cittadini, tanto nell’acquisizione di nuovi comportamenti e stili di vita, quanto, e più in generale, nel loro coinvolgimento attivo in sede di definizione, tra l’altro, delle politiche di contrasto ai cambiamenti climatici.
Riforme e compliance
Non è questa la sede per ripercorrere quanto sin qui è stato compiuto sul piano della riforme e degli interventi normativi in materia. Ci si potrebbe limitare a ricordare due recentissimi episodi.
A distanza di cinquant’anni esatti dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite assunta durante la Conferenza di Stoccolma del 1972 sull’“Ambiente Umano”, che per la prima volta poneva in stretta relazione l’obiettivo del miglioramento delle condizioni di vita umane con la necessità di salvaguardare le risorse naturali, lo scorso 26 luglio, l’Assemblea generale dell’Onu, con una storica risoluzione ancorché non giuridicamente vincolante, ha finalmente riconosciuto l’accesso ad un ambiente salubre, sano e sostenibile quale nuovo diritto umano universale.
Durante invece lo scorso febbraio, il Parlamento italiano ha approvato una riforma costituzionale con la quale sono stati riscritti gli articoli 9 e 41 della nostra Costituzione. La legge costituzionale n. 1 del 2022 ha introdotto espressamente la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, accanto alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico della Nazione (art. 9), e, al contempo, ha subordinato esplicitamente l’esercizio della libertà di iniziativa economica privata al rispetto delle salute e dell’ambiente, aggiungendo questi due nuovi limiti a quelli della sicurezza, della libertà e della dignità umana (art. 41).
Si tratta di interventi o riforme tardive? È sufficiente approvare delle risoluzioni o modificare la Costituzione per far fronte all’inquinamento, al cambiamento climatico, alla perdita di biodiversità, al consumo di suolo?
No, certamente. In alcuni recenti articoli apparsi sulla stampa nazionale, il Presidente Emerito della Corte costituzionale, Prof. Giuliano Amato, ha giustamente ricordato che il tema attuale “è quello dell’osservanza delle norme, della compliance”, indicando una strada su tutte, ovvero la partecipazione dei cittadini specialmente nelle sedi locali di definizione delle decisioni e delle scelte pubbliche:
« (…) Ci si deve saper sottrarre alla tentazione del centralismo, che è particolarmente forte in tempi di emergenza, ma che proprio in una emergenza come quella che ci aspetta è davvero la tentazione sbagliata. Se è vero infatti che l’approdo ha da essere, non l’arrivo delle scelte di governo in Gazzetta Ufficiale (e a quel che segue provvede la forza del diritto), ma la generalizzata convinzione che esse vanno condivise e attuate dal maggior numero possibile di noi e possibilmente da tutti, le istituzioni centrali di una democrazia non dispongono di ciò che, a quel punto, serve di più: i processi e le sedi di partecipazione che, in modi diversi, coinvolgono tanti cittadini attivi ora nell’elaborazione, ora nell’attuazione delle scelte pubbliche e che sono previste e praticate, non a caso, nelle sedi regionali e locali, le sedi più vicine al territorio».
Ancorata direttamente ai principi costituzionali di uguaglianza e di parità di trattamento di tutti i cittadini in sede di «partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 Cost.), la democrazia partecipativa diviene, allora, «veicolo del bene comune», strumento «non meno irrinunciabile della scelta dei propri rappresentanti» per l’elaborazione, la comprensione, la condivisione e, in ultimo, la stessa osservanza ed attuazione delle decisioni pubbliche, e ciò specialmente nella fase presente di crisi dei partiti ma, soprattutto, in un momento storico in cui il tema del clima e della tutela dell’ambiente sta intercettando pericolosamente quello della tenuta democratica dei governi nazionali, dei regimi autoritari e dei populismi.
Così, nel pieno spirito del federalismo cooperativo, gli Stati dovrebbero lasciare spazio alle amministrazioni regionali e soprattutto locali per perseguire (e istituzionalizzare) un dialogo e un confronto costante con i cittadini, i volontari, gli addetti del terzo settore.
Tutto ciò starebbe a confermare esattamente un dato, che ci sembra centrale: il crescente ruolo delle amministrazioni territoriali, e, in particolare, delle città nel riconoscimento, nell’affermazione e nella stessa garanzia dei diritti delle persone. Ed è questo un aspetto da tenere a mente dinanzi alla recente diffusione a livello locale di alcune inedite soluzioni di democrazia partecipativa innestate esattamente nell’ambito dei processi decisionali pubblici in materia di contrasto ai cambiamenti climatici.
La democrazia partecipativa in Italia e le (nuove) assemblee cittadine per il clima
Se questo è il contesto e la cornice (anche giuridica) di riferimento, ben si può cogliere ed applaudire allora alle iniziative di alcune amministrazioni territoriali che, ancorché in presenza di un quadro normativo statale non certamente compiuto ma comunque fertile e in divenire (si pensi al dibattito pubblico introdotto nel 2016 con il nuovo Codice dei contratti pubblici, ma effettivamente operante dal 2018), hanno portato anche nel nostro Paese all’apparizione delle prime assemblee cittadine per il clima.
A differenza di altri Stati, come la Francia o l’Inghilterra, l’Italia non conosce una disciplina generale di fonte nazionale in materia di partecipazione del pubblico.
Non è un caso, del resto, che fino ad un recente passato proprio la realizzazione di alcune grandi opere pubbliche di interesse nazionale e ad elevato impatto ambientale abbia provocato forti conflitti e contrasti, cagionati molto spesso anche dalla messa in atto di meccanismi partecipativi alquanto carenti e non adeguati. Solo per ricordarne alcuni, si pensi al progetto di dighe mobili pensato per la Laguna di Venezia (c.d. M.O.S.E., Modulo Sperimentale Elettromeccanico), al ponte sullo Stretto di Messina, alle ben note vicende legate alla linea ferroviaria ad alta velocità lungo la tratta Torino-Lione o ancora più di recente al Gasdotto trans-adriatico in Salento.
Così è soprattutto grazie all’introduzione a livello regionale di discipline legislative in materia di dibattito, consultazione e istruttoria pubblica, di istituti affini come i town meeting, i citizen meeting, e di altri processi partecipativi variamente denominati, che in fondo hanno fatto la loro comparsa anche in Italia le prime discipline normative sui consigli dei cittadini e delle cittadine (Provincia autonoma di Bolzano, 2018) o sui tavoli e assemblee cittadine (Comune di Susa, 2020; Comune di Milano, 2021; Comune di Bologna, 2021).
Dichiaratamente ispirate ad alcune esperienze straniere, fra le quali quella francese della Convention Citoyenne pour le Climat istituita nel 2019 dal Presidente Macron, la peculiarità di questo tipo di assemblee – e che le differenzia dagli altri istituti partecipativi appena menzionati – è data dal fatto che esse pur collocandosi tra le forme di democrazia partecipativa, in quanto volte a favorire l’intervento civico in sede di approvazione, da parte degli organi democraticamente eletti (siano essi di livello nazionale, regionale o locale), di atti normativi e amministrativi d’interesse per la comunità di riferimento, si inscrivono nell’ambito della c.d. democrazia aleatoria di ateniese memoria.
L’estrazione a sorte di un campione casuale di cittadini adeguatamente rappresentativo della popolazione, unitamente al metodo della formazione, da parte di esperti neutri, dei componenti di quest’organo deliberante sarebbe quanto necessario per assicurare legittimazione al consesso e rafforzarne il ruolo dinanzi agli stessi organi assembleari di governo.
Si tratterebbe, in estrema sintesi, di un’assemblea civica:
i) i cui componenti vengono sorteggiati secondo procedure statistiche sofisticate;
ii) sviluppata attorno ad un complesso sistema di governance che ne garantisce l’ordinato funzionamento;
iii) adeguatamente sorretta sul piano informativo e conoscitivo, tramite il supporto e la consultazione, in seno al processo deliberativo, di tecnici e ricercatori indipendenti, selezionati tramite pocedure trasparenti;
iv) che si informa alla massima pubblicità e trasparenza di tutte le sue operazioni, dalla fase della sua costituzione sino a quella della deliberazione;
v) che produce proposte e raccomandazioni che possono influire, senza vincolarle, sulle scelte pubbliche, e segnatamente su quelle aventi un impatto ambientale e climatico;
vi) che si affianca – non si sostituisce – agli organi di governo e ai loro apparati, tenuti, di riflesso, ad intrattenere con i cittadini sorteggiati un dialogo trasparente ed uno scambio corretto, leale e costante.
È in nostra convinzione che se congegnata in questo modo (le opzioni in campo sono varie e differenti – si vedano, fra gli altri, M. Gerwin, Le assemblee civiche. Guida ad una democrazia che funziona, e Guida di Extinction Rebellion alle Assemblee di cittadine e cittadini), questa forma di partecipazione civica possa realmente garantire, da un lato, la produzione di decisioni pubbliche maggiormente informate e, dall’altro, l’innalzamento del livello di accettazione e dunque di osservanza ed attuazione delle stesse.
È da sostenere con fermezza, infatti, l’idea che la valorizzazione delle occasioni di partecipazione e di confronto con i cittadini – specie nella fase di attuale debolezza delle istituzioni democratiche – contribuiscano realmente ad arricchire la base conoscitiva dei processi decisionali pubblici e a sostenere la legittimazione delle istituzioni e delle loro decisioni.
Ciò ribadito, è opportuno trarre un’ulteriore e finale considerazione, che si spera possa fungere anche da caveat: le istituzioni, a qualunque livello di governo si collochino, non possono né svuotare le proprie decisioni né rinunciare ad assumersi le proprie responsabilità dinanzi ai cittadini tutti, rinviando a meccanismi di questo tipo. Sono ancora troppo vivi nella memoria per non ricordarli, i casi in cui la politica, per gestire l’emergenza sanitaria da Covid-19, ha ceduto talora il passo alla scienza, lasciando che le conoscenze tecniche ammantassero di legittimazione decisioni difficili e fortemente limitative delle libertà dei cittadini. Solo, allora, se la politica non abdica al proprio ruolo, il patto di collaborazione con la società civile (e la comunità scientifica) può davvero avere un senso e produrre i suoi frutti, e ciò nell’interesse esclusivo e permanente delle generazioni future, dell’ambiente e della qualità della vita di tutti noi.