Laurearsi in carcere è possibile. È del novembre del 2020 il primo detenuto ad aver conseguito, con lode, la laurea presso l’Università di Ferrara; e fa parte di un gruppo di alcune decine di detenuti che sono giunti al traguardo in uno dei numerosi atenei del nostro Paese che aderiscono alla Conferenza nazionale universitaria poli penitenziari (Cnupp), istituita presso la Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui).
La possibilità di seguire corsi, anche di alta formazione, in carcere è uno dei percorsi fondamentali per adempiere al dettato costituzionale di “tendere alla rieducazione del condannato”. Ma è un percorso irto di difficoltà e a volte estenuante, non solo per i detenuti che vivono in strutture che, sia per carenza di risorse sia per intrinseche difficoltà di gestione dei diversi profili di detenzione, rendono difficile lo studio ma anche per chi eroga l’istruzione.
In particolare, la formazione universitaria richiede un’organizzazione molto complessa, perché, a differenza della “scuola in carcere” che avviene con la presenza del docente per tutto il corso di formazione, lo studio universitario è sostanzialmente individuale e isolato, e la presenza del docente può limitarsi ai soli adempimenti formali come gli esami.
Ne abbiamo parlato con Stefania Carnevale, docente di Diritto dell’esecuzione penale presso l’Università di Ferrara, delegata alla gestione delle relazioni con l’Amministrazione penitenziaria e con la Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i Poli universitari penitenziari (Cnupp) e alla gestione dei rapporti istituzionali con la Casa circondariale di Ferrara.
Carnevale ha partecipato alla commissione ministeriale di riforma per l’ordinamento penitenziario, ed è stata anche per anni Garante dei detenuti, un ruolo che ha svolto con grande impegno fino alla prima fase della pandemia di Covid-19, e che le ha consentito di conoscere il carcere molto più da vicino di quanto non comporti la sola delega rettorale e di “vedere tutti gli angoli anche più bui e oscuri della vita detentiva”.
L’obiettivo 16 dell’Agenda Onu (giustizia e istituzioni forti) è raggiungibile e concretamente praticabile nella realtà carceraria, o è un’utile indicazione generale, ma sostanzialmente solo di principio, che non trova poi concreta applicazione?
“Quando si parla di carcere c’è sempre una grande differenza tra le dichiarazioni e gli intenti, non solamente riguardo all’università.
Gli obiettivi da perseguire sono importantissimi, ma bisogna sempre fare i conti con una realtà concreta che è molto complessa. Prendiamo ad esempio la costruzione di nuovi edifici penitenziari su cui si è molto puntato. In tutti i Paesi dove è stata perseguita questa soluzione, che potrebbe sia aiutare a risolvere il problema del sovraffollamento e delle condizioni di vita dei detenuti, sia assicurare spazi adeguati per attività risocializzanti ed educative, tra cui lo studio in carcere, ebbene ovunque questa scelta è stata compiuta, essa non si è mai dimostrata risolutiva.
La costruzione di nuovi edifici penitenziari è stata la strada sempre seguita dall’Ottocento, da quando nasce il modello di carcere che conosciamo. Ma quando questi spazi nuovi ci sono, si riempiono molto velocemente, molto più velocemente di quanto si pensi, anche quando le carceri si cerca di svuotarle con strumenti come i provvedimenti di clemenza. Lo spazio si riempie nuovamente con una rapidità incredibile. Accade in tutto il Mondo: il sistema tende a riempirlo. Un po’ come facciamo noi quando in casa abbiamo un nuovo spazio: sappiamo che presto finisce.
Andrebbe ricercata la soluzione in un altro tipo di politiche, con il ricorso a strumenti alternativi alla detenzione, applicati secondo diverse scale di intensità e di gravità, lasciando il carcere a estrema ratio. In Italia, inoltre, abbiamo tendenzialmente delle pene molto lunghe anche rispetto ad altri Paesi europei. È chiaro che anche le pene elevate comportano l’occupazione di spazio per via del minore turnover.
La situazione di sovraffollamento adesso è migliorata; effettivamente non è così drammatica come qualche anno fa, quando siamo stati condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. I dati attuali sono: 56.225 detenuti, di cui 2.352 donne (17.854 stranieri) per una capienza regolamentare di 51.174 posti.
La nostra Costituzione e i trattati internazionali prevedono la reintroduzione nella società civile in maniera positiva e proficua, in maniera che non continuino ovviamente a delinquere. Perché questo accada, si deve lavorare fortemente nel tempo e sulle modalità di detenzione. Gli strumenti normativi ci sono; la legge prevede in tutti i modi che si debbano costruire percorsi di risocializzazione, di reinclusione, di riabilitazione.
Questo è molto complicato, anche se si fanno sforzi bellissimi e mirabili negli istituti penitenziari, sforzi che posso testimoniare personalmente con sincerità e franchezza. Ma lo si fa con scarsissimi mezzi, anche se le risorse vengono spesso integrate dalle Amministrazioni locali. Le risorse sono sempre molto, molto poche e vengono magari destinate appunto all’edilizia penitenziaria.”
Rispetto al caso specifico dell’università in carcere, qual è la situazione? Ci sono dati a livello nazionale?
“Secondo i dati raccolti dalla Cnupp, organo della Crui, a cui partecipano una quarantina di atenei italiani, il numero complessivo degli studenti iscritti all’anno accademico 2021-2022 è di 1.246, di cui 1.201uomini e 45 donne. Gli iscritti in carcere sono 1.114, mentre il numero di chi usufruisce di misure alternative o è in esecuzione penale esterna o a fine pena è di 132. Gli stranieri sono 153. Bisogna considerare che dei detenuti, 626 sono in regime di media sicurezza, 449 in alta Sicurezza e 33 a regime 41 bis.”
Secondo la sua lunga e articolata esperienza su tanti aspetti del mondo carcerario, quali sono i punti di forza e le criticità del progetto dell’università in carcere?
“Secondo tutti gli interlocutori istituzionali con cui ci rapportiamo, lo studio universitario è un percorso di grande importanza. Nel nostro ordinamento penitenziario l’istruzione è vista come uno dei cardini del trattamento, insieme al lavoro, ai tirocini, alla formazione professionale, al rapporto con la famiglia e ad altre attività. E c’è anche una norma dell’ordinamento carcerario dedicata proprio all’istruzione universitaria.
L’aspetto positivo fondamentale è dare prospettive nuove e inaspettate alle persone che vengono da percorsi criminali e molto spesso dal disagio sociale, prospettive che non avrebbero mai pensato di poter raggiungere: prospettive di vita, culturali, di riflessione, nuovi strumenti di interpretazione della realtà e si acquisiscono nuove competenze. Sono strumenti che facilitano l’ingresso nei percorsi virtuosi di misure alternative e di progressivo inserimento nella società.
Sono anche strumenti di rilettura del loro vissuto. Molti detenuti dicono che rileggono in maniera diversa la propria esperienza personale. Prevalgono gli studi di facoltà umanistiche, anche perché sono più facili da seguire in carcere. C’è grande interesse per le materie che li coinvolgono personalmente, e leggono quali opinioni fuori dal carcere si danno dell’Istituzione carceraria; quindi hanno anche questi strumenti di lettura migliore del luogo in cui si trovano.
Fra i punti di criticità, il primo è che, a parte sporadici casi di sperimentazioni di lezioni in carcere con studenti esterni, la condizione dello studente universitario in carcere è la solitudine. È uno studio solitario, individuale, a differenza della scuola in carcere dove c’è l’insegnante che va a fare lezione nella classe e sono molto più seguiti.
C’è poi il problema degli spazi. Gli spazi della detenzione sono spazi complicati per chi studia; per questo in alcune carceri sono istituite delle sezioni dedicate esclusivamente agli iscritti all’università; lì sono tutti studenti e quindi tendenzialmente si disturbano meno. Normalmente, anche a Ferrara, gli studenti condividono lo spazio con gli altri. In cella c’è un piccolissimo tavolino da dividere in due persone e magari la televisione sempre accesa, le persone che parlano ad alta voce.
Ci sono poi forti ostacoli dal punto di vista economico. Le persone che stanno in carcere sono spesso in condizioni di nullatenenza totale, e se la pena è un pò lunga non hanno più un introito, e magari hanno dovuto risarcire il danno alle vittime, pagare le spese legali e pagare anche il mantenimento in carcere. In queste condizioni è difficilissimo pagare tutte le spese dell’università, dall’iscrizione ai libri.
L’assenza di Internet è poi un altro grande problema. Ne stiamo discutendo a livello nazionale e in alcuni istituti ci sono delle sperimentazioni, ma sono eccezioni. A Ferrara speriamo a breve di poter avere un piccolo impianto sperimentale per collegarsi solo al sito Unife e a nient’altro.
Ormai senza Internet è impossibile fare qualunque cosa: iscriversi, contattare un docente, programmare esami, mandare email, sapere quali sono i programmi, scaricare materiale didattico, seguire lezioni in streaming, prendere appuntamento. Questo significa essere un pò “senza mani, senza braccia”.
Infine, un’altra criticità molto forte è data dagli spostamenti, trasferimenti, per le più diverse ragioni: dal sovraffollamento ai motivi famigliari alle necessità processuali.”
Alla fine di questa ampia carrellata, stringiamo un po’ il fuoco sull’università di Ferrara
“Attualmente la situazione è questa: sei iscritti detenuti più un pre-immatricolato e quattro in esecuzione penale esterna. Altre cinque richieste di persone detenute in carcere sono in fase di trattazione con raccolta di informazioni preliminari e reperimento di documenti.
Ferrara è partita da poco tempo, con una prima convenzione nel 2015 e uno studente, grazie all’impiego di una docente, Cristiana Fioravanti, e due amministrativi, Max Tognoli e Patrizia Grandi.
I buoni risultati ottenuti nel tempo sono dovuti anche a un grande incremento di sensibilità di tutti gli uffici. Fondamentale è il contributo dei tutor, che prima non c’erano, e che sono fondamentali per seguire gli studenti: siamo partiti da un tutor per trenta ore e ora siamo con tre a cento ore.
C’è una grande sensibilità da parte della rettrice, e siamo riusciti a ottenere fondi straordinari destinati all’inclusione durante il periodo pandemico, che ha avuto un grande peso dato l’isolamento del carcere. Proprio durante la pandemia si è rivelata la grande importanza del contributo del sistema bibliotecario di ateneo e degli uffici informatici e della collaborazione con la direttrice e il personale del carcere. La pandemia, paradossalmente, ha aperto nuove possibilità, ad esempio, tenendo conto di tutte le complesse procedure di sicurezza, è stato possibile usufruire delle registrazioni delle lezioni: avere il senso di una lezione universitaria è molto diverso da leggere un libro.”