Da due mesi le donne in tutto l’Iran mettono la loro vita in pericolo scendendo nelle strade al grido di “Jin, jiyan azadî ” (donna, vita libertà) dopo la brutale uccisione della ventiduenne curdo-iraniana Mahsa Amini avvenuta il 16 settembre dopo tre giorni dal suo arresto perché non indossava correttamente il velo.
L’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani Nada Al-Nashif ha chiesto un’indagine tempestiva, imparziale, efficace e indipendente sulla morte di Mahsa Amini e ha condannato l’uso della forza non necessario o sproporzionato contro i manifestanti. Purtroppo prevale storicamente l’assenza di un sistema di responsabilità per le violazioni dei diritti umani nel sistema politico e giuridico iraniano, come evidenziato dal Relatore speciale sulla situazione dei diritti umani in Iran, Javaid Rehman, nel rapporto sulla situazione dei diritti umani nel Paese dello scorso marzo.
La politica dell’hijab
In tutto il mondo l’hijab, il velo islamico, è un indumento altamente politicizzato e viene utilizzato come strumento di controllo sui corpi delle donne. Sia che si tratti del divieto del burkini in Francia, del divieto di indossare l’hijab in alcune parti dell’India o della copertura forzata per mano della polizia religiosa in paesi come l’Iran la questione del velo è altamente controversa.
Sara Bazoobandi, ricercatrice e Marie Curie Fellow presso l’Istituto tedesco per gli studi globali di Amburgo, in un articolo pubblicato sul sito del Carnegie Endowment for International Peace afferma che in tutto il mondo, l’hijab è una scelta religiosa personale fatta dalle donne, mentre in Iran si è trasformato in un simbolo di oppressione ed emarginazione.
L’attuale rifiuto dell’hijab da parte delle manifestanti iraniane, quindi, non equivale necessariamente a un rifiuto dell’Islam o dei valori islamici. Piuttosto, rappresenta la rabbia e la frustrazione delle persone, in particolare le donne, che per decenni sono state private della loro fondamentale libertà di scelta.
Dal 1979, il codice di abbigliamento imposto dallo stato è legato ai diritti socio-economici di base come l’occupazione, l’istruzione e l’accesso agli spazi pubblici. Inoltre, il codice di abbigliamento ha avuto un impatto anche sugli uomini iraniani a cui è stato vietato di indossare maniche corte, jeans e colori vivaci nei luoghi di lavoro e nelle università.
Lo Stato ha usato il suo potere per imporre misure di controllo su ogni aspetto della vita pubblica e privata dei cittadini: matrimoni misti e feste di compleanno, ascoltare musica e guardare film stranieri o possedere cani sono tutte azioni soggette all’interferenza dello Stato.
Oltre l’hijab, lotta per i diritti
L’atto di bruciare l’hijab e il taglio dei capelli delle manifestanti iraniane che hanno avuto eco globale sono diventati il simbolo di richieste di riforme politiche ed economiche fondamentali più ampie.
Nonostante la repressione violenta nei confronti di sindacalisti e attivisti sindacali, avvocati, attiviste donne, difensori dei diritti umani, giornalisti, secondo quanto afferma l’organizzazione Iran Human Right Documentation Center, dal 2017 si sono verificate una ondate sempre più intense di proteste a livello nazionale per la corruzione diffusa e le sistematiche violazioni dei diritti umani da parte del regime.
Mentre i morti nel corso delle ultime proteste sono ormai oltre 250 e le persone arrestate oltre 12mila, tra gli ultimi atti del regime si registra quello di segregare gli studenti che manifestano in centri di correzione perché come ha affermato il ministro dell’Istruzione iraniano “Chi protesta va curato”.