“Da sempre come Rete pensiamo a vincere la pace, non la guerra. Il conflitto cioè non ci interessa solo quando è violenza conclamata, perché sappiamo che in guerra si instillano nella popolazione estremismi e semi di odio e violenza che rimangono e impediscono, anche in una situazione di non belligeranza, di costruire la pace in quanto tale. Quindi, dopo aver messo in atto una serie di iniziative immediate di aiuto umanitario alle popolazioni colpite, vogliamo ribadire che non c’è solo il qui e ora, ma ci sono anche problemi futuri di carattere ambientale, sociale e culturale”. È quanto afferma ad Agenda17 Francesco Vignarca, coordinatore campagne della Rete italiana per la pace e il disarmo, tra gli enti organizzatori del convegno Disarmo climatico, che si è svolto a Trento dal 27 al 29 ottobre.
Ogni conflitto genera infatti conseguenze sul piano non solo umanitario, civile ed economico, ma anche ambientale. Obiettivo dell’evento era proprio discutere di crisi climatica con un approccio interdisciplinare, attraverso una serie di incontri nei quali gli esperti si sono confrontati sul tema dell’impatto ambientale di armi e guerre e sui percorsi verso un futuro di sicurezza climatica.
“Avevamo già impostato questo percorso – prosegue Vignarca – prima del conflitto in Ucraina, con una riflessione portata avanti nel 2021 e che ha condotto alla pubblicazione di un position paper sul tema.
La nostra Rete è il risultato di un percorso di convergenza tra la Rete disarmo, più legata alle campagne di controllo degli armamenti, non proliferazione e disarmo, quindi se vogliamo più ‘tecnica’, e la Rete della pace, che affronta le questioni da un punto di vista più politico. L’unione di questi percorsi ha portato a un rafforzamento delle iniziative e a una maggiore consapevolezza sul fatto che la pace non è solo assenza di combattimenti, ma anche presenza dei diritti, riduzione delle disuguaglianze e crescita del benessere, non solo economico, per tutti.
Di conseguenza, avendo al nostro interno realtà come Legambiente e collaborando con altre come Greenpeace o Fridays for Future, abbiamo pensato che occorresse una riflessione anche sull’incrocio tra cambiamento climatico e pace.”
Disarmo climatico: militarizzazione dei cambiamenti climatici e inquinamento delle guerre
Sono due gli aspetti principali che riguardano il concetto di disarmo climatico, analizzati anche durante il convegno.
“Da un lato – spiega Vignarca – la militarizzazione dei cambiamenti climatici. Questi ultimi generano infatti spostamenti di persone, si parla di qualche decina di milioni di migranti climatici nei prossimi anni, e tutto ciò è alla base di possibili conflitti. Negli ultimi anni si è però gestito il fenomeno perlopiù in maniera militarizzata: anziché agire sulle cause, o almeno cercare di attutirne gli impatti, semplicemente si bloccano i flussi migratori con una risposta che non è favorevole alla pace.
Dall’altro lato c’è l’inquinamento causato dai conflitti. Anzitutto i residui tossici e inquinanti: siamo abituati a considerare le guerre solo quando si combatte, ma in realtà hanno impatti riverberanti anche sul lungo periodo. Ad esempio l’Afghanistan è pieno di poligoni, basi e ordigni inesplosi, o la Sardegna è una Regione in cui le strutture militari hanno provocato molti impatti ambientali.
In secondo luogo, l’impatto climalterante delle strutture militari, sia gli eserciti sia la produzione e commercio degli armamenti. Nonostante esistano studi e analisi in tal senso, mancano però dati completi e tra le richieste di molte iniziative c’è proprio la trasparenza da parte dei Ministeri della difesa sul livello di inquinamento delle loro attività.”
Molte le fonti di inquinamento nell’Ucraina industrializzata
A pochi giorni dall’inizio del conflitto in Ucraina, il Conflict and Environment Observatory (CEOBS) ha pubblicato un report riguardante problemi e rischi ambientali emersi a seguito dell’invasione. In ogni guerra, infatti, si verificano incidenti che mettono a rischio persone ed ecosistemi con danni a lungo termine, soprattutto in un territorio fortemente industrializzato come l’Ucraina.
Tra le potenziali fonti di inquinamento ci sono i siti militari e navali, con rilascio di nubi tossiche e metalli pesanti; la contaminazione e il rischio di radiazioni in caso di attacco alle strutture nucleari; il danneggiamento delle infrastrutture legate ai corsi d’acqua; l’uso delle armi, che causano polverizzazione dei materiali da costruzione (tra cui amianto e prodotti da combustione), detriti e inquinamento di suolo e acque sotterranee; infine le infrastrutture industriali, come miniere, impianti di lavorazione chimica e stabilimenti metallurgici di cui il Paese è ricco.
Il pericolo per questi siti, inoltre, non si concretizza solo nel caso di un danno diretto: CEOBS sottolinea infatti i rischi legati a spegnimento forzato, tagli di corrente, carenza di personale che possa operare in maniera tutelata e attacchi sul fronte della sicurezza informatica.
“Al convegno – aggiunge Vignarca – ha partecipato anche Ellie Kinney del CEOBS, perché loro sono un punto di riferimento sul tema, oltre a un contributo video di Radhya Almutawakel, di Mwatana for Human Rights, un’organizzazione indipendente yemenita, che racconterà la connessione tra guerra e problematiche ambientali.
A tal proposito c’è da dire che, paradossalmente, a differenza di zone di guerra più rurali ed economicamente arretrate dove in qualche modo alcuni problemi si evitano, nel caso dell’Ucraina abbiamo una situazione di produzione industriale non banale, peraltro contigua a una produzione cerealicola e alimentare molto forte. Il forte impatto ambientale non riguarda quindi solo chi sta lì, ma anche il resto del Mondo: oltre al blocco delle esportazioni, dobbiamo considerare il fatto che se l’ambiente diventerà talmente inquinato e compromesso da non poter più produrre, la situazione non si potrà più risolvere.”
Diritto al clima: maggiori tutele giuridiche aiutano il dialogo
Nel 2016, l’Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente (United Nations Environment Programme, UNEP) ha approvato a Nairobi una risoluzione dell’Ucraina sulla protezione dell’ambiente nelle aree colpite da conflitti armati. Secondo CEOBS, è stata la più significativa nel suo genere dal 1992, quando la preoccupazione per il danno ambientale causato dalla Guerra del Golfo aveva alimentato la preoccupazione internazionale. Tra gli obiettivi della risoluzione, vi erano una maggiore comprensione delle implicazioni ambientali dei conflitti armati e la necessità di affrontare la debolezza della protezione legale dell’ambiente a livello internazionale.
“Questa guerra – commenta Vignarca – ci ha portato indietro sul fronte ambientale e su quello del disarmo. Da qualche mese, a parte il tema del disarmo nucleare, tutte le altre campagne hanno fatto passi indietro. Ad esempio, l’aumento della spesa militare, già in corso a livello pratico, è stato sdoganato anche da un punto di vista retorico e di rivendicazione.
Il flusso di armamenti verso l’Ucraina è infatti in completa antitesi con le leggi nazionali e internazionali. Addirittura c’è chi mette in dubbio che l’intervento umanitario e di mediazione debba essere neutrale, cioè si sta teorizzando che vada invece ‘incorporato’ in una delle due parti. Questa logica è però contraria a ciò che ha fondato le Convenzioni di Ginevra e dell’Aia: se vado ad aiutare, devo aiutare tutti, altrimenti assumo un ruolo di parte all’interno di un esercito combattente, che va benissimo ma non è un intervento umanitario.
Noi crediamo molto nei ruoli giuridici: pur consapevoli che la legge di per sé non è una garanzia ma c’è bisogno di implementazione delle norme, crediamo che la loro esistenza permetta quantomeno di avere un linguaggio comune da cui partire.
Per questo al convegno ci siamo occupati anche di diritto al clima, che è tale non solo nei conflitti. La giustizia climatica infatti o sarà democratica o non sarà giustizia climatica, o sarà trattata in maniera non violenta e cooperativa o non potrà esistere. Abbiamo quindi voluto mettere in gioco anche questi aspetti tecnicamente non legati al disarmo climatico, ma comunque cruciali.”
Per la pace è necessario un negoziato multilaterale
“Come tanti altri conflitti che ignoriamo, anche la guerra in Ucraina – conclude – è un epifenomeno di una situazione di insicurezza e disequilibrio globale. È in qualche modo la febbre sintomo di qualcos’altro: come prima cosa abbassi la febbre, ma poi devi capire qual è l’infezione che ti porta ad essa.
Quindi il negoziato di base deve partire da un cessate il fuoco e dalla fine delle ostilità, ma poi bisogna capire come organizzarsi a livello globale per avere una situazione di sicurezza allargata: anche alla manifestazione del 5 novembre di Roma ribadiremo con forza che il cessate il fuoco è solo condizione di partenza per un negoziato che non può essere a due, ma dovrà essere allargato.
La storia ci insegna infatti che un negoziato multilaterale è più efficace di uno bilaterale, che funziona solo quando una delle due parti è abbastanza forte da imporsi. È quanto successo alla Germania della Seconda guerra mondiale, ma così diventa una resa senza condizioni e il problema è che questo oggi potrebbe condurci all’escalation nucleare.”