“La guerra non si fa di colpo, e nemmeno la pace. Se da un lato questo conflitto era già in incubazione dal 2014, dall’altro in questo momento l’obiettivo non deve essere la firma di un trattato di pace domani, ma che tacciano le armi, se non del tutto almeno in qualche pezzo delle scacchiere. I pacifisti dovrebbero chiedere una tregua e un inizio di dialogo: è questo che realisticamente si può sperare nell’immediato sul piano della realpolitik. Nel frattempo l’opinione pubblica può spingere i potenti verso la pace, e chiaramente sperare che ascoltino” afferma ad Agenda17 Alberto Castelli, docente di Storia e teorie della democrazia presso l’Università dell’Insubria.
Abbiamo chiesto al docente un’analisi della situazione attuale, In un momento in cui la guerra sembra orientarsi verso un’escalation di violenza, e con il rischio nucleare che continua a incombere sull’Europa e il resto del Mondo.
La guerra chiama guerra: serve un compromesso tra le parti
Nella precedente intervista, Castelli aveva affermato che l’uso della violenza organizzata su vasta scala e prolungato nel tempo può sfuggire di mano alla politica e portare a un’escalation incontrollabile.
Recentemente, sui propri canali social anche Emergency ha ribadito un concetto simile: “stiamo perdendo il controllo di questa guerra perché l’unico modo di controllare una guerra è non iniziarla”. Il conflitto in Ucraina è quindi ormai fuori controllo?
“In parte sì – commenta Castelli – nel senso che, quando si comincia la guerra, a un certo punto si viene travolti dal dover vincere, per non rischiare la rivolta in casa. Se Putin perdesse la guerra, infatti, perderebbe probabilmente anche il potere. È successo nella Russia del 1905 e del 1917: il fatto che una guerra fallita spesso produca un rivolgimento del potere politico è quasi un classico nella storia.
Per questo Putin deve andare avanti, probabilmente anche contro l’interesse di molti nel suo popolo e nell’establishment interno. Teme che la guerra persa si trasformi in un colpo di Stato e ha quindi bisogno di concludere le operazioni belliche in modo da poter affermare di aver raggiunto gli obiettivi previsti. Deve insomma salvare la faccia.
In questo momento, inoltre, la fine delle ostilità non conviene alla North Atlantic Treaty Organization (NATO) e all’Ucraina, perché i russi hanno difficoltà sul campo, stanno subendo un forte contraccolpo economico, anche se lo negano, e sul fronte interno molti uomini fuggono per non arruolarsi: viste queste crepe, sarà difficile che dall’altra parte si dica basta.
Per questo la guerra chiama la guerra: non la si può finire finché da entrambe le parti non si ha una soddisfazione.”
L’Europa è debole, ma una Russia destabilizzata può peggiorare la situazione
Dall’inizio del conflitto il ruolo dell’Europa è rimasto marginale, nonostante il diretto coinvolgimento a livello geografico, economico e sociale. Dovrebbe invece essere l’Unione europea, con una voce sola, a chiedere la fine delle ostilità.
“È chiaro – prosegue Castelli – che qualcosa a Putin bisogna regalarla: non è possibile pensare di ricacciarlo semplicemente oltre i confini prebellici. Anche perché questo vorrebbe dire destabilizzare fortemente la Russia rischiando un golpe interno.
Noi europei dovremmo cercare quindi di capire se ci conviene che Putin sia spodestato: una Russia destabilizzata, magari in preda di oligarchie violente, sarebbe forse peggiore di una Russia in mano a Putin.
In questo momento NATO, Stati Uniti e Ucraina premono per continuare, mentre la Russia forse vorrebbe cercare un accordo onorevole. Quello che manca è la voce dell’Europa: finché non avremmo un’Europa unita, con un’unica voce in politica estera e un esercito proprio non avremo mai questa capacità e questa forza contrattuale.”
L’allineamento alla NATO ci espone al rischio nucleare
Un pericolo per l’Europa è inoltre rappresentato da possibili bombardamenti sulle centrali nucleari. Prima ancora dell’uso dell’atomica, che rappresenterebbe un disastro per tutto il Mondo, l’attenzione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (International Atomic Energy Agency, IAEA) e dei Paesi vicini all’Ucraina è rivolta alla salvaguardia delle centrali presenti sul territorio.
“Il prezzo di un incidente nucleare – prosegue il docente – lo pagherebbero gli europei e nonostante ciò non riusciamo ad avere una voce autorevole che riesca a pesare sulle sorti del conflitto.
Siamo infatti allineati alla politica americana in quanto membri della NATO, e il motivo si capisce: gli americani ci proteggono con le loro armi, ma vogliono adesione alla loro politica. Dobbiamo però chiederci fino a che punto, perché in questo frangente l’allineamento ci sta costando molto.
L’argomento, che ricorre spesso, per cui la NATO è un’alleanza difensiva e non c’è quindi obbligo di intervento visto che l’Ucraina non ne fa parte, è debole. Da trent’anni a questa parte non ci si è preoccupati troppo della giurisprudenza: se infatti non c’è obbligo giuridico di intervento, è però politicamente chiara la forte influenza americana sulla nostra politica.
Inoltre la NATO è un’alleanza difensiva fino a un certo punto. Basti pensare che l’unico intervento armato estero è stato nell’ex Jugoslavia, con i bombardamenti in Serbia in relazione alla crisi del Kosovo. Non fu un intervento difensivo: si disse che era una ‘guerra umanitaria’ per difendere i kosovari dalla politica violenta di Milosevic, ma in realtà è servito a fare arretrare la Russia dai Balcani e ridurre la Serbia a vassallo di Unione Europea e Stati Uniti.”
La strada verso la pace parte dal far tacere le armi
In questi giorni si stanno mobilitando diverse associazioni a sostegno della pace. Sono previste manifestazioni in più città italiane, oltre agli appelli lanciati, come la lettera di un gruppo di ambasciatori italiani al Governo, affinché promuova l’iniziativa diplomatica in Europa, e quella di alcuni intellettuali per suggerire sei punti di partenza verso un cessate il fuoco.
“Sul fronte della pace – conclude Castelli – sicuramente la pressione popolare può aiutare. È vero che le decisioni che riguardano guerra e pace di solito trascendono la volontà dei popoli, tuttavia l’opinione pubblica è comunque uno degli attori sulla scena: conta poco, ma dobbiamo farla contare. Sta a noi cittadini, in particolare agli intellettuali, premere sui Governi perché trovino delle soluzioni e non si appiattiscano sul bellicismo.
Però, se invece che spingere per trovare un modo per uscire dalla guerra, salvaguardando il potere di Putin, l’Ucraina e l’Europa, ci balocchiamo con la retorica resistenziale contro il neofascista Putin, di fatto non otteniamo nulla, anzi spingiamo verso l’Armageddon.
È un atteggiamento stupido perché la guerra che c’è oggi in Ucraina non è la stessa che c’era contro il nazifascismo in Italia. È piuttosto una guerra contro un avversario estremamente pericoloso non per noi, ma per il Pianeta perché un gigante militare ed economico politicamente indebolito è un pericolo per l’Umanità. Bisogna fare in modo che gli animi si raffreddino e le armi tacciano: questo è il ruolo dell’opinione pubblica e degli intellettuali, che invece spesso considerano loro dovere dire quanto è giusto questo conflitto.”