Nel 2021, le donne accolte nei Centri antiviolenza gestiti dall’organizzazione Donne in rete contro la violenza (D.i.Re) sono aumentate del 3,5% rispetto al 2020, nonostante le restrizioni dovute alla pandemia e l’assenza di stabilità dei finanziamenti. Questo dato va interpretato alla luce di due fenomeni: “da una parte la pandemia ha innescato dinamiche che hanno favorito un’escalation delle violenze, diventate più gravi e pesanti, dall’altra le donne maturano la consapevolezza di essere in una situazione di bisogno e di avere la possibilità di chiedere aiuto, contando sull’esistenza di luoghi sicuri e accoglienti come i Centri antiviolenza” affermano ad Agenda17 Paola Castagnotto, Presidente del Centro donna giustizia di Ferrara, e Daria Baglioni, Coordinatrice del progetto “Uscire dalla violenza” dello stesso Centro.
I dati emergono dal report “Violenza maschile alle donne: a che punto siamo?” recentemente pubblicato da D.i.Re. Nel 2021, sono state 20.711 le donne accolte dai Centri della rete, ma rispetto alle vittime di violenza domestica la percentuale di chi denuncia rimane ancora troppo bassa.
L’uomo violento è quasi sempre il partner o l’ex, ma poche donne denunciano
Il sistema di protezione per le donne vittime di violenza si compone dei Centri antiviolenza, che svolgono servizi di supporto legale e psicologico, mediazione linguistica e percorsi di orientamento al lavoro, e delle Case rifugio, che offrono in più supporto alloggiativo e consulenza genitoriale.
I Centri antiviolenza e le Case rifugio non sono distribuiti uniformemente nel territorio nazionale, come conferma il report dell’Istituto nazionale di statistica (Istat) “Il sistema di protezione per le donne vittime di violenza” di maggio 2022. Oltre la metà di quelli della rete D.i.Re (rispettivamente il 55% e il 56,4%) sono concentrati nel Nord, mentre sono solo il 23% e il 17,7% al Sud e Isole.
Durante il 2020 il numero di donne ospitate nelle Case rifugio era diminuito a causa della riduzione della capienza per le restrizioni sanitarie e della difficoltà di allontanare la donna dal nucleo familiare violento. Nel 2021 invece il numero di donne ospitate è stato più alto grazie alla maggiore disponibilità di posti letto, che comunque rimangono in numero insufficiente.
Quasi la metà delle donne accolte ha fra i trenta e quarantanove anni e una su quattro (26%) è di origine straniera. Sul totale delle violenze subite, però, soltanto meno di una su tre (28%), in linea con gli anni precedenti, decide di denunciare, segno della “vittimizzazione secondaria” a cui spesso vanno incontro quando si rivolgono alla giustizia. La vittimizzazione secondaria è il fenomeno per cui la donna viene colpevolizzata e interrogata sui suoi comportamenti: il sistema di dominio patriarcale mantiene la presa sulle istituzioni e minimizza la violenza.
L’autore della violenza invece ha un’età compresa fra i trenta e cinquantanove anni e per il 73% dei casi è di nazionalità italiana. Nella grande maggioranza dei casi (79,8%) l’uomo violento è il partner o l’ex-partner e, se si aggiunge la percentuale di casi in cui si tratta di un familiare, si arriva alla quasi totalità (90,9%).
“La mentalità patriarcale – spiegano Castagnotto e Baglioni – è profondamente presente nel vivere quotidiano, in modi più o meno espliciti, e rappresenta la ‘norma’, quindi un’abitudine, una zona di comfort. Ciò ha ripercussioni potenti anche nelle relazioni affettive e di intimità, dove tale modello si riproduce e può degenerare in uno squilibrio relazionale tra i generi fino a manifestazioni di violenza anche gravi, che vengono però spesso ‘normalizzate’ e giustificate. La violenza trova la sua linfa vitale anche negli stereotipi di genere e in una scarsa educazione alle emozioni e all’affettività, che per il maschile in particolare rappresenta spesso quasi un tabù.”
Riconoscere le forme più subdole della violenza
La violenza ha diverse forme, la più frequente è quella psicologica (77,9%). Seguono quella fisica (57,6%) e quella economica (31,6%). In percentuali minori la violenza sessuale e lo stalking. La violenza fisica e quella sessuale sono le forme più evidenti, ma è importante saper riconoscere anche quelle più subdole che spesso le precedono, quali la violenza psicologica e quella economica.
La violenza psicologica si manifesta in continue offese verbali, denigrazione, minacce di abuso o di abbandono, nel controllo delle frequentazioni della donna, nell’isolarla dai propri contatti esterni, nell’imposizione della propria volontà e nella distruzione di oggetti cari alla donna.
La violenza economica mira invece a danneggiare l’indipendenza economica della donna, seguendo lo stereotipo che sia l’uomo a dover gestire le finanze: ostacolare il lavoro fuori casa della donna, impedire l’accesso alle finanze familiari, nascondere la reale situazione finanziaria familiare e appropriarsi dei guadagni della donna. Lo stalking infine è un insieme di atti persecutori, come minacce, pedinamenti, molestie, messi in atto da un ex-partner per porre in soggezione la donna.
“Riteniamo che in questi ultimi anni il tema della violenza sia argomento diffusamente trattato dai media, social network e pubblicazioni varie. Ciò indubbiamente contribuisce a una maggior presa di consapevolezza, che porta le donne a nominare la violenza e trovare il coraggio di parlarne, e questo rappresenta il primo passo per interromperne il ciclo” affermano Castagnotto e Baglioni.
Proprio per insegnare a riconoscere sul nascere i diversi tipi di violenza, i Centri svolgono anche attività di prevenzione, sensibilizzazione e formazione sul territorio, comprese le scuole. In questo modo realizzano due delle tre P previste dalla Convenzione di Istanbul, la “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, approvata nel 2011 e ratificata dall’Italia nel 2013. Si basa su tre obiettivi – prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i crimini – e su di essa è stato modellato il “Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne”.
Il ritardo dei finanziamenti pubblici
L’Intesa Stato, Regioni e Province Autonome siglata nel 2014 ha riconosciuto ai Centri antiviolenza e alle Case rifugio la presa in carico, il supporto e la protezione delle donne vittime di violenza e dei loro figli, in accordo con la Convenzione di Istanbul. Il contrasto alla violenza di genere e il finanziamento dei Centri dovrebbe essere una priorità dei governi italiani. Eppure, il Piano nazionale antiviolenza scaduto nel 2020 non è stato rinnovato per quasi un anno e, a causa della mancanza di stabilità dei fondi pubblici, solo il 33,3% delle attiviste dei Centri è retribuito.
Il problema è che l’Intesa del 2014, anziché una distribuzione centralizzata e diretta dei fondi, ha istituito un sistema in più passaggi in cui sono le Regioni a gestirli con procedure diverse e a passarli poi ai Comuni. Questo sistema causa notevoli ritardi, come evidenziato dal report “Cronache di un’occasione mancata” di ActionAid del novembre 2021.
Per il 2021 non è ancora stato trasferito niente dal Dipartimento di pari opportunità. Inoltre, nel 2020, a causa della pressione mediatica sulla violenza domestica durante il lockdown, i fondi stanziati per il 2019 sono arrivati alle Regioni in quattro mesi, ma nel 2021 i tempi sono tornati lunghi (sette mesi).
Un Reddito di libertà insufficiente
Un altro problema che ha ritardato l’arrivo dei fondi è stato il fatto che il Piano nazionale antiviolenza scaduto a fine 2020 è stato rinnovato solo undici mesi dopo. Il nuovo Piano prevede finanziamenti strutturali per la prevenzione contro gli stereotipi e una serie di misure per favorire l’autonomia economica delle donne che escono dalla violenza, nell’ambito del nuovo obiettivo “assistenza e promozione”.
Quest’ultimo aspetto è molto importante, dato che circa una donna su tre (31,9%), fra quelle accolte nei Centri di D.i.Re, è a reddito zero (disoccupate, casalinghe e studentesse) e solo poco più di una su tre (37%) ha un reddito sicuro. Trovare un’autonomia è infatti un problema soprattutto per le donne sopra i quarant’anni che non hanno mai avuto esperienze lavorative.
“Il Piano 2021-2023 – spiegano Castagnotto e Baglioni – ha indicato diverse aree di intervento sull’obiettivo dell’autonomia: protocolli per il reinserimento lavorativo; percorsi di formazione di eccellenza con tirocini retribuiti vincolati all’inserimento lavorativo; contributi per il supporto al lavoro autonomo femminile, oltre alle forme già esistenti di microcredito; percorsi di autonomia abitativa attraverso l’implementazione e la differenziazione della rete dell’accoglienza; continuità dei ‘Redditi di libertà’, che si auspica siano sempre migliori e più finanziati.”
Quest’ultima misura, introdotta già con un decreto a dicembre 2020 e presentata dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps) a novembre 2021, prevede un massimo di 400 euro mensili per dodici mesi con uno stanziamento di tre milioni di euro. Ma secondo i calcoli di D.i.Re, ne potranno beneficiare solo 625 donne, contro le oltre 20mila accolte dai Centri della rete ogni anno e le circa 50mila accolte da tutti i Centri antiviolenza d’Italia.
Inoltre, 400 euro mensili non sono una cifra che può dare l’autonomia economica oggi in Italia e non tutte le donne accolte nei Centri antiviolenza vogliono essere seguite dai servizi sociali, condizione necessaria per accedere alla misura. Il Reddito di libertà è dunque ancora lontano dal “Reddito di autodeterminazione” incondizionato auspicato dal movimento femminista Non una di meno, ma potrebbe essere un punto di partenza per una misura strutturale.
Le criticità del Piano antiviolenza
Oltre al ritardo e al limitato coinvolgimento attivo dei Centri antiviolenza nella stesura del Piano antiviolenza 2021-23, e visto anche il continuo alto numero di femminicidi (nel 2021 sono stati 113), c’è ancora molto lavoro da fare.
Ad esempio, evidenziano Castagnotto e Baglioni: “in questo triennio, il diritto civile deve evolversi per non essere una sede di vittimizzazione secondaria delle donne, spesso trattate da madri imputate più che da vittime con i loro figli. Sarà a questo proposito fondamentale rendere interconnesse le diverse sedi di Tribunale civile, penale e dei minori e prevedere percorsi strutturali di formazione specifica rivolta agli operatori a tutti i livelli: servizio sociale, Forze dell’ordine, avvocati, psicologi, educatori, magistrati.”
In particolare, mancano ancora adeguati servizi specialistici per bambini testimoni di violenza e troppo spesso nei tribunali viene minimizzata la violenza e utilizzato il concetto di alienazione parentale (la psicologia disfunzionale che si attiverebbe nei figli a cui è impedito di mantenere un rapporto continuativo con un genitore) nel decretare i diritti di visita da parte del padre maltrattante. Ma non sempre gli incontri protetti soddisfano i criteri di reale sicurezza.
Il contrasto alla violenza di genere è assente nel Pnrr
A dimostrazione della mancanza di una visione strutturale di prevenzione e contrasto alla violenza di genere, questi temi sono assenti nella Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026 e nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ad eccezione della raccomandazione di includere le donne vittime di violenza domestica nei programmi di housing sociale.
“Il Pnrr rischia di essere un’occasione mancata non solo per la violenza di genere, ma anche per l’avanzamento di una vera parità di genere. Le donne continuano a essere considerate soggetti fragili, ‘da includere’ nel mercato del lavoro e non protagoniste attive del cambiamento.
Una speciale sezione è dedicata a incentivare le capacità imprenditoriali attraverso la costituzione di un Fondo per le micro e piccole imprese femminili, ma con finanziamenti di scarsa entità. L’indipendenza economica dovrebbe, in teoria, costituire anche il pilastro per sostenere le donne vittime di violenza, attraverso l’introduzione di misure dedicate come il microcredito di libertà e la creazione di una Rete di imprese contro la violenza” concludono Castagnotto e Baglioni.
Come sottolinea il report di ActionAid, confinare il diritto delle donne a una vita senza violenza nel Piano nazionale antiviolenza e non integrarlo nella principale programmazione economica delle attività del Paese significa continuare a considerarlo un problema di secondaria importanza e non avviare il cambiamento culturale e integrato necessario per superarlo.