Uno studio dell’Osservatorio sulle eccedenze, sui recuperi e sugli sprechi alimentari (Oersa) del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea), ha indagato le due linee di spreco alimentare: quella domestica e quella del settore primario. Se ridurre gli sprechi è il primo obiettivo, il secondo passo è utilizzare la scienza e la tecnologia per trasformare gli scarti in nuova materia.
Le eccedenze alimentari in famiglia e in campagna. La legge del Buon samaritano
Le famiglie italiane gettano via mediamente 370g di cibo a settimana, principalmente prodotti freschi come frutta, verdura, pane e bevande non alcoliche, mille famiglie sprecherebbero a settimana 370kg di cibo, il 4.4% del totale acquistato, il 3,8% della spesa complessiva. Nel settore primario le filiere più “sprecone” sono quelle di mele, kiwi, pesche e prugne. Le cause sono da ricondursi a impatto climatico (86.1%), presenza di parassiti o fitopatologie (63.9%), difetti di forma o dimensione del prodotto (61.1%).
Se per prevenire gli sprechi domestici occorre un cambiamento nelle scelte alimentari individuali, un discorso completamente diverso è quello del comparto agricolo. Dal rapporto Oersa emerge in questo caso un’efficiente azione sulle eccedenze, dovute al sistema dell’Organizzazione dei produttori (Op) e a un processo normativo chiaro ed efficace. La cosiddetta Legge del Buon samaritano del 2003 ha semplificato le procedure di donazione di cibo a sostegno delle organizzazioni senza scopo di lucro. Questo ha permesso all’Op di ridistribuire il 64,9% delle eccedenze.
Ma cosa succede a quel materiale non utilizzabile, a quello che è andato a male o semplicemente è buccia, raspo, baccello? Resta il rifiuto vero e proprio che non può essere recuperato così com’è, ma deve essere trasformato per tornare valore, sia dal punto di vista organico, che economico.
Ed è qui che entrano in gioco ricerca scientifica e innovazione tecnologica, che devono fare i conti con l’eterogeneità della frazione organica. Se ci pensiamo, infatti, grazie alla tecnologia del riciclo la carta torna carta, il vetro torna vetro, la plastica, plastica (con tutte le complicazioni del caso), ma una buccia non torna arancia, un ramo secco di ulivo, non torna ulivo. O almeno non subito.
Lo scarto torna suolo
“Quanto la pianta coltivata ha sottratto all’ambiente, può tornare all’ambiente più ricco e vitale”. A parlare è Paolo Marini, agronomo, titolare dell’Azienda Compost Natura che gestisce uno dei due centri di compostaggio presenti nella Provincia di Lecce: un ettaro di terra all’aperto che può accogliere fino a tremila tonnellate di biomassa vegetale da trasformare in Ammendante compostate verde (Acv) di alta qualità.
Quello di Marini è un esempio virtuoso d’incontro tra ricerca, istituzione e impresa. Il centro di compostaggio nasce, infatti, nel 2014 con il finanziamento della Regione Puglia per rendere operativa una ricerca dell’Istituto Agronomico Mediterraneo di Valenzano, in Provincia di Bari.
“Il nostro compito era industrializzare quello che i ricercatori avevano messo a punto in laboratorio: l’ottimizzazione del compost secondo un preciso rapporto di bilanciamento tra carbonio e azoto ovvero tra parte legnosa e fogliame, per ottenere un fertilizzante di alta qualità”, spiega Marini .
Si fa presto a dire compost, ma in realtà esiste anche in questo una ricetta: una precisa selezione degli scarti che sono triturati e miscelati per generare le corrette reazioni chimiche, fisiche e microbiologiche. Nel centro di compostaggio arrivano diverse tipologie di rifiuto organico vegetale: il verde prodotto delle imprese di manutenzione di parchi e giardini e quello raccolto dalle municipalizzate nelle isole ecologiche, ma anche residui ortofrutticoli che provengono dalle industrie di trasformazione di frutta e verdura come raspi dell’uva, ciliegie o balle di funghi andati a male, nonchè scarti della cosiddetta quarta gamma, non vendibili sul mercato.
“Gestendo bene i cumuli durante la fase di stabilizzazione – continua Marini – è possibile coltivare gli scarti, sfruttando il calore naturale proveniente dalla fermentazione, per favorire la crescita delle colture durante il periodo invernale. Mantenendo la temperatura costante intorno ai 25 gradi, si genera, con un metodo altamente sostenibile, un compost stabile che, posto in prossimità della radice, ne migliora la produzione agricola.”
L’Italia ha un grosso problema di suolo, il Sud in modo particolare. Quella che viene chiamata desertificazione è principalmente carenza di sostanza organica e quindi incapacità del terreno di trattenere l’acqua. Il fertilizzante ottenuto dagli scarti vegetali delle filiere agricole, grazie alla tecnica del compostaggio, inserisce nel suolo tutta quella biodiversità microbica di funghi e batteri, che era andata persa col processo produttivo, rigenerando il suolo.
Il compostaggio è solo una delle tecniche a disposizione per trasformare la frazione organica: in Italia ci sono duecentonovantatre impianti di compostaggio, quarantatré impianti di trattamento anaerobico e aerobico che trasformano la materia sia in fertilizzante che in biogas e ventitre impianti che utilizzano solo la digestione anaerobica, producendo biogas e digestati. Per le industrie della trasformazione alimentare ciascuna di queste strade ha un costo, che è comunque molto minore del conferimento in discarica. È per questo che molte aziende si rivolgono alla ricerca scientifica per massimizzare l’utilizzo degli scarti.
Packaging biodegradabile
C’è un primo processo che consente di trasformare la materia organica degli scarti in nuovi materiali, quelli che in un’ottica di economia circolare sono chiamati smart materials, riutilizzabili nel ciclo produttivo.
Lo ha messo a punto l’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova, che collabora con le industrie di trasformazione degli alimenti per creare nuovi prodotti utilizzando le parti non utilizzate: scarti della filiera del caffè, involucri delle fave di cacao, bucce di arancia.
L’obiettivo è quello di studiare in laboratorio processi replicabili dall’azienda stessa, con i macchinari già in dotazione. Ci spiega il processo Giulia Suarato, ricercatrice in bioingegneria dei materiali al Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr- Ieiit), con una lunga esperienza come ricercatrice all’Ieiit: “uno dei modi più semplici per creare packaging biodegradabile da scarti di filiera parte dall’utilizzo di tecniche di essiccazione e macinazione, da cui si ottiene una polvere. A questo punto si miscela la polvere con polimeri derivanti dal mais e, con l’utilizzo di un estrusore, si ottiene un filamento. Inserendo il filamento in una stampante 3D quello che era scarto può diventare contenitore alimentare che andrà poi, una volta utilizzato, a degradarsi al 100%”.
Questi processi tecnologici allungano la vita dei residui organici, sfruttandone a pieno le potenzialità chimiche e fisiche.
Principi attivi
Ma c’è di più, esistono metodi ancora più raffinati, messi a punto dallo stesso gruppo di ricercatori, che riescono a estrarre principi attivi ancora funzionali dagli scarti. Se è vero che la buccia d’arancia non può tornare arancia, ci sono sostanze attive in quella buccia ancora utilizzabili, come ad esempio i pigmenti. Uno degli assi di ricerca dell’iit ha condotto, ad esempio, all’utilizzo dello scarto per le colorazioni di vernici ad acqua. Con lo stesso procedimento sono stati estratti dagli scarti del caffè o dal residuo dei cavoli principi attivi utilizzabili in biomedicina come antinfiammatori e antibatterici o, ancora, come bioindicatori.
“È il caso delle foglie del cavolo rosso, scartate dal mercato ortofrutticolo – continua Suarato – che sono ricche di antocianine. Queste sostanze cambiano colore a seconda del ph dell’ambiente in cui si trovano. Inserendo nel packaging le antocianine estratte dal cavolo è stato possibile creare un nuovo contenitore capace di indicare lo stato di freschezza del cibo. Quando i cibi si ossidano l’antocianina fa cambiare colore al contenitore e ci avverte che va consumato al più presto.”
In questo modo la ricerca scientifica e la tecnologia riescono non solo a dare strumenti per allungare la vita degli scarti organici, ma danno una mano anche nel ridurre lo spreco alimentare.