“La guerra in Ucraina può cambiare lo sguardo dei Paesi occidentali sul Medio Oriente, e se sì, in che modo?” È la domanda che Catherine Cornet, giornalista e ricercatrice francese, ha posto, nel ruolo di moderatrice, agli esperti presenti all’incontro di Internazionale a Ferrara “I buoni e i cattivi”.
L’Occidente abbandona il Medio Oriente
Il conflitto russo-ucraino – secondo il politologo e orientalista Oliver Roy – non sta facendo altro che amplificare il nostro distacco dal Medio Oriente. L’Ucraina è uno stato che può dirsi nel complesso democratico, uno Stato-nazione con un proprio esercito, mentre lo stesso non vale per il Medio Oriente e, dunque, l’immedesimazione e l’identificazione è più facile per i Paesi occidentali, per cui risulta più semplice sostenere l’Ucraina.
Inoltre, la verità, sottolinea Roy, è che gli Stati occidentali hanno agito così perché loro stessi temono i russi e Putin: si tratta di un incentivo all’azione che invece manca alla situazione medio-orientale.
La guerra in Afghanistan – secondo il politologo – è un modello emblematico delle guerre infinite in Medio Oriente: è un conflitto che va avanti da quarantacinque anni. La recente presa di Kabul, di cui peraltro i media hanno parlato solamente per qualche mese per poi disinteressarsene, è solo l’ultimo atto di un conflitto che va avanti dal 1978. Si tratta, in realtà, di un panorama in continuo mutamento, pieno di propagande e molta disinformazione.
Classificazione e gerarchizzazione di guerre e crimini
Secondo Wafa Mustafa – giornalista e attivista siriana, il cui stesso nome designa ciò per cui si batte (Wafa è il nome dell’Agenzia di informazioni palestinese) -, nella narrazione del conflitto tra Russia e Ucraina gli ucraini vengono visti come “più bianchi, più civili e conseguentemente più degni di essere salvati” delle popolazioni coinvolte nei conflitti in Medio Oriente. È in atto una gerarchizzazione e classificazione di crimini di guerra, che invece, in quanto tali, vanno sempre denunciati e condannati.
Non c’è chi merita più sostegno di altri, tutti meritano di essere trattati come esseri umani, e va combattuto ogni tipo di oppressione e repressione politica. I rifugiati sono rifugiati, e la guerra è guerra, indipendentemente dalla collocazione geografica, economica e politica in cui si inserisce il conflitto.
Wafa, che ha dovuto lasciare la Siria dopo la sparizione del padre Ali, noto dissidente del regime di Assad, con orgoglio chiede che vengano riconosciuti dignità, libertà e stato di diritto ai cittadini siriani. Quella in Siria, sottolinea, non è una guerra civile, ma una guerra contro i civili: non si combatte gli uni contro gli altri ma contro la dittatura.
Un esempio emblematico del fallimento dell’azione occidentale in merito alla questione mediorientale – secondo Mohammed El Kurd, scrittore, poeta e attivista palestinese – è la storia della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, uccisa da un proiettile israeliano. Shireen Abu Akleh rappresenta, sottolinea Mohamed, la perfetta vittima della libertà di stampa.
La stampa internazionale però si è fatta sfuggire la possibilità di mostrare le sue potenzialità sulla questione, e ha sbagliato nuovamente a trattare la notizia. Infatti, nonostante Shireen Abu Akleh fosse la “vittima perfetta”: dotata di passaporto americano, e, in quanto cristiana, andasse oltre la islamofobia che ancora colpisce alcuni europei, c’è stato un fallimento mediatico internazionale. Infatti solo dopo molto tempo i media americani ed europei hanno ammesso la provenienza del proiettile che aveva colpito e ucciso Shireen.
Dunque, per Mohamed, che ha recentemente pronunciato un appassionato discorso davanti all’Assemblea generale dell’Onu durante il quale ha chiesto ai Paesi che la costituiscono di “essere coraggiosi e di schierarsi dal lato giusto della storia”, è necessaria una rivoluzione mediatica per trattare l’argomento e incidere davvero sull’opinione dell’Occidente. Deve essere rivoluzionato il modo stesso in cui si affronta il problema per riuscire a capirlo e cercare di risolverlo.
Un altro esempio che dimostra il fallimento informativo è la relazione pubblicata da Amnesty International e Humans Right Watch, che denuncia l’apartheid israeliana attuata contro i palestinesi: il problema di questa relazione sono le tempistiche della sua pubblicazione.
Sono state prestate insufficienti attenzioni alle discriminazioni e oppressioni sistematiche attuate dagli israeliani nei confronti dei palestinesi. Infatti di fronte alle barbarie e alle brutalità della repressione israeliana, la popolazione palestinese chiede da oltre vent’anni che la politica israeliana sia riconosciuta come politica di apartheid. Solo adesso si sta iniziando a prendere in considerazione il problema a livello internazionale.
La concorrenza del vittimismo e della compassione non ha senso
Ciò che Wafa e Mohamed mirano ad attuare con la loro azione di attivismo è arrivare allo stesso trattamento per tutti, all’equità, non alla stessa sofferenza per tutti. La concorrenza nel vittimismo, afferma Wafa, non ha senso, la concorrenza della compassione tra siriani e ucraini è un processo sterile e vuoto, che risulta solo controproducente per entrambe le cause.
L’altra grande questione è il ruolo e l’impatto della giustizia internazionale nel conflitto tra Israele e Palestina e, in generale, in tutte le guerre. I processi portati avanti in Europa, come quello dei due ufficiali siriani giudicati dalla Germania per alcuni dei molti crimini internazionali perpetrati in Siria dal 2011, sono sicuramente un passo avanti, ma ciò che Wafa sottolinea è che non possono essere un’alternativa alla ricerca di una risoluzione effettiva del problema; non possono essere una copertura del fallimento internazionale in Siria.