Ci sono diversi modi per leggere la parola “nucleare” in questo periodo di guerra. L’aggressività degli scambi verbali tra schieramenti geopolitici opposti richiama alcune dichiarazioni audaci degli anni della Guerra fredda, nella quale la teoria della “deterrenza razionale” imponeva ai Governi delle due superpotenze nucleari di mostrarsi sicure e spavalde, dichiarando di essere disposti a usare il proprio arsenale atomico fino all’annichilazione del nemico in caso di attacco – una dottrina militare nota con nome di “distruzione reciproca assicurata”.
Dopo un periodo in cui i trattati tra Stati Uniti e Russia sembravano mostrare progressi, per quanto lenti, nel disarmo nucleare, si è giunti a un periodo di stallo e, dopo lo scoppio delle ostilità in Ucraina, corrono voci di un riarmo atomico, e paure che si credevano dimenticate sin dal crollo dell’Unione Sovietica sono riaffiorate (come testimonia la pubblicazione di diversi instant book sul tema della sopravvivenza a un disastro atomico).
C’è anche l’ansia nelle centrali nucleari occupate, che ha raggiunto il suo apice nelle prime settimane di guerra, quando in Europa si è registrato un picco della richiesta di integratori di iodio, per il timore che un incidente alle centrali ucraine potesse causare la dispersione di sostanze radioattive al di là dei confini ucraini, come già avvenuto nel 1986 in occasione del disastro di Černobyl.
Proprio da Černobyl, per oltre un mese dall’inizio dell’occupazione, venivano le maggiori preoccupazioni per le condizioni non ottimali in cui si è trovato a lavorare il personale, tenuto ostaggio dalle milizie russe che non permettevano né il cambio turno, né la manutenzione ordinaria, col risultato che il monitoraggio radiologico e la fornitura di corrente sono stati a lungo malfunzionanti. Inoltre, sebbene il reattore non abbia subìto danni, la centrale di Zaporižžja – la più grande d’Europa, nel sud del paese – è stato il primo impianto nucleare interessato da un bombardamento.
Nucleare green o no?
Oggi però di nucleare si parla soprattutto in relazione alla questione energetica. La guerra e le sanzioni hanno accelerato una situazione di crisi, che però già sottostava l’insostenibilità di un modello di sviluppo e consumo energetico basato sullo sfruttamento dei combustibili fossili, col loro impatto sul clima terrestre. Il nucleare, con una serie di vincoli che riguardano soprattutto la gestione dei rifiuti, è stato incluso nella tassonomia della finanza sostenibile dell’Unione europea, che eroga finanziamenti agevolati agli impianti energetici giudicati sostenibili.
Una decisione motivata in larga parte dalle bassissime emissioni degli impianti nucleari per unità di energia prodotta, che ha sollevato polemiche prevedibili, considerando quanto l’argomento dell’energia nucleare sia polarizzante e quanto sollevi timori profondi e radicati, che vanno oltre l’analisi tecnica coinvolgendo aspetti sociali e valoriali generalmente trascurati, che determinano peraltro un suo livello di accettazione anche molto differente da paese a paese.
Una forma travolgente di energia
Sono questi i tre aspetti controversi del nucleare – applicazioni militari, rischio di incidenti e impatto ambientale “a regime” – che sono andata a trattare nel libro che ho scritto per Chiarelettere, Travolti da un atomico destino: perché non ci fidiamo del nucleare, pubblicato lo scorso 1° giugno. Tre aspetti che, volendo, potrebbero correre su binari separati, tenendo presente che è possibile sviluppare indipendentemente le tecnologie nucleari militari ed energetiche, e che le nuove generazioni di centrali nucleari devono sottostare a requisiti di sicurezza molto più vincolanti rispetto a quelle costruite quarant’anni fa.
Tuttavia, è molto difficile slegare questi tre aspetti nella memoria collettiva. Per questo motivo, il libro ha l’obiettivo di decostruirli tutti, affrontando la storia dell’energia nucleare dalle origini, il suo “battesimo di fuoco” nei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki e la sua inquietante infanzia nella Guerra fredda. Il comparto nucleare energetico, nato a ridosso della guerra, fu gestito dalle stesse agenzie che si occupavano degli armamenti atomici e ne condivise la chiusura, gli insabbiamenti e le discriminazioni.
Secondo le promesse illusorie annunciate dal presidente americano Eisenhower nel discorso “Atoms for Peace” del 1955, l’energia nucleare avrebbe dovuto portare un’era di pace e benessere, ma le generazioni cresciute in quell’epoca vivevano l’inquietudine costante di un’apocalissi nucleare scatenata da una delle “scaramucce” dai due lati della Cortina di ferro, mentre il comparto militare-industriale faceva continue pressioni per sviluppare nuovi armamenti e gonfiare gli arsenali.
Chi ne fece le spese furono soprattutto le minoranze etniche, come i nativi americani e gli aborigeni, e i prigionieri di guerra in Unione Sovietica, cavie inconsapevoli dell’inquinamento radioattivo e degli esperimenti nucleari dal deserto del Nevada a quello del Kazakistan, dalle isole del Pacifico all’entroterra australiano.
La memoria degli incidenti storici
La parte del leone nel determinare terrore degli incidenti nucleari la fa senz’altro Černobyl, un evento disastroso non tanto in termini delle conseguenze sanitarie dirette, ma di ciò che ha comportato in termini di distruzione comunitaria, fallimento del sogno nucleare sovietico, crollo di immagine della grande industria in generale e del nucleare in particolare, nonostante siano passati trentasei anni e la tecnologia nucleare oggi sia molto diversa. Il libro contiene il mio resoconto di una visita alla zona di esclusione nel 2019, prima dei lockdown e della guerra, per vedere da vicino la zona di interdizione che l’incidente si è lasciato dietro.
La zona di esclusione racconta un passato fatto di mitologia, propaganda, tecno-ottimismo e manie di grandezza, dove spiccava il benessere e l’orgoglio di quei fortunati che venivano selezionati per vivere e lavorare nelle esclusive “città chiuse”. Sulle vestigia di questo passato cresce ora una vegetazione rigogliosa, la fauna indisturbata si è appropriata degli spazi occupati dall’uomo, e alcune famiglie hanno fatto ritorno per passare il resto della loro vita nei luoghi dai quali erano stati evacuati, mentre le comunità circostanti stanno cercando di ridare un’identità al territorio.
Gli incidenti nucleari “storici” (Černobyl ma anche Windscale, Three Mile Island e Fukushima) hanno rappresentato un fallimento nella risposta istituzionale alla crisi, nella quale l’industria nucleare e gli enti governativi hanno mostrato eccessiva confidenza nella sicurezza del nucleare, col risultato che da una parte le sviste e gli interventi di messa in sicurezza sono stati rimandati, dall’altra parte è venuto a mancare vuoi un piano di gestione dell’emergenza, vuoi un coordinamento razionale degli interventi.
Così, le evacuazioni forzate e improvvisate a Fukushima hanno causato un numero di vittime incomparabilmente maggiore dell’incidente in sé. Non solo: l’incidente ha sollevato il velo su una serie di episodi di malversazioni, incompetenza e corruzione del comparto nucleare giapponese, che ne ha minato l’immagine per i cittadini e ha spinto, per un certo periodo, a tentare l’abbandono dell’energia nucleare da parte del paese, che tuttavia ha dovuto fare dietrofront per i costi elevatissimi di questa scelta.
L’incertezza sugli effetti sanitari delle radiazioni
Il libro discute anche l’incertezza nel quantificare e circoscrivere gli effetti della radioattività sulla salute: se, in linea di massima, sappiamo cosa succede al di sopra di una certa dose-soglia, per le dosi più basse diventa difficile distinguere gli eventuali effetti genetici nocivi dell’esposizione alla radioattività da quelli riconducibili ad altri fattori ambientali (regime alimentare, stress, esposizione a contaminanti di altro tipo) o a una predisposizione personale.
Il modello epidemiologico attualmente adottato, basato sull’applicazione stretta del principio di precauzione, è utile per guidare le pratiche mediche in caso di procedure che prevedano esposizione alle radiazioni, ma le previsioni che fornisce non sembrano concordare con le osservazioni a lungo termine condotte sulle persone esposte a basse dosi di radiazione, in quanto tende a sovrastimare il rischio. Inoltre, sembra essere smentita una maggior incidenza di malattie congenite nei figli di persone esposte alle radiazioni prima del concepimento.
Di fatto, sia che l’incertezza sugli effetti dell’esposizione a basse dosi sia strumentalizzata a favore dell’energia nucleare o contro di essa, crea un’inquietudine latente e difficile da affrontare per le comunità che sono state interessate dagli effetti di un incidente nucleare, che oltre a vivere con il dubbio di ammalarsi, fronteggiano la contaminazione della propria terra, che richiede tempi lunghi e costi ingenti per essere portata a termine; un’ansia che si pensa abbia determinato una maggior incidenza di malattie legate allo stress, agli abusi e all’adozione di stili di vita malsani.
Le questioni in sospeso per il futuro del nucleare
Il testo prosegue con una rassegna dei progetti per il nucleare di quarta generazione, il nucleare al torio e i reattori modulari, trattando in particolare la questione delle scorie: un problema che è sì rimasto irrisolto, ma che va necessariamente messo in prospettiva rispetto alle alternative e per il quale la tecnologia di confinamento esiste già.
Al momento attuale infatti la gestione temporanea dei rifiuti di alto livello non presenta particolari criticità, nonostante alcuni episodi poco edificanti in passato, e il problema è principalmente politico, di immagine e psicologico (perché ci è difficile concepire l’idea stessa che qualcosa possa essere custodito nel sottosuolo per centomila anni). In Italia, la localizzazione del deposito unico nazionale si trascina da decenni nelle pastoie burocratiche del nostro paese e non sembra vicina a una soluzione, nonostante vi siano preoccupazioni per alcuni depositi temporanei disseminati sul territorio, gestiti da privati dalle dubbie credenziali.
In chiosa, il libro discute come, con l’emergere e l’affermarsi dei movimenti ambientalisti storici, molti dei quali nati in corrispondenza del pacifismo, il nucleare – una tecnologia trasformativa molto giovane, sofisticata e caratterizzata da un ambiente molto elitario – si sia dovuto confrontare con nuove e incalzanti esigenze di equità, sicurezza ambientale e trasparenza, nonché con un radicale mutamento di atteggiamento da parte dei media, che da fedeli ripetitori della propaganda nucleare si sono man mano trasformati in un’entità perlopiù ostile.
Oggi, i nuovi movimenti giovanili hanno ereditato la diffidenza nei confronti del nucleare che fu propria dell’ambientalismo storico. Il ruolo del nucleare nella soluzione ai problemi climatici è complicato non solo dai dubbi sul suo impatto ambientale, ma dalla natura estremamente identitaria e politicizzata dei vari atteggiamenti “pro” e “contro”, che solo in pochi isolati contesti hanno trovato un terreno di dialogo e contrattazione. La ricerca di un equilibrio nella discussione sulla tecnologia nucleare è un’ulteriore questione aperta, un terreno di prova molto impegnativo per la comunicazione scientifica del futuro prossimo.