La guerra in Ucraina non solo ci ha messo di fronte alla possibilità del lancio di testate nucleari, ma ha fatto anche crescere la paura di possibili attacchi alle centrali nucleari che producono energia elettrica.
Questa mattina un missile russo è volato “criticamente a bassa quota” sulla centrale nucleare dell’Ucraina meridionale nella regione di Mykolayiv, Lo ha denunciato l’operatore nazionale delle centrali, Energoatom.
Ieri, l’agenzia di intellingence ucraina ha denunciato la gravità della situazione presso la centrale più grande d’Europa, quella di Zaporizhzhya: la centrale è infatti in una fase critica per la mancanza di pezzi di ricambio e di materiali riutilizzabili. Il Paese sta valutando di spegnerla se dovesse perdere il controllo del sito, che si trova in un’area sotto il controllo russo.
Come evidenzia Alessandro Pascolini, già docente di Fisica teorica e di Scienze per la pace presso l’Università di Padova, “il 24 febbraio l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (International Atomic Energy Agency, IAEA) fu informata dall’Ispettorato statale ucraino per la regolamentazione nucleare dell’imposizione della legge marziale sul Paese e di un’allerta per il sito di Chernobyl. L’IAEA ha condotto due missioni in Ucraina per esaminare la situazione e impostare il programma di assistenza per ridurre i rischi di gravi incidenti nucleari e produce regolari aggiornamenti sulla situazione delle strutture nucleari.”
L’Ucraina ha infatti vasta esperienza nei vari aspetti della tecnologia nucleare civile, con quattro impianti elettronucleari con quindici reattori, per una potenza totale di oltre 13 giga watt elettrici (GWe).
“I reattori – afferma Pascolini – sono estremamente più sicuri di quelli attivi a suo tempo a Chernobyl. I loro edifici in cemento rafforzato sono in grado di sopportare anche proiettili e testate di alta potenza, che non siano specifici per penetrazione anti-bunker. Anche la rottura dell’edificio non può portare a danneggiare il nocciolo del reattore, racchiuso in un contenitore a pressione di acciaio inossidabile incorporato di cemento.”
I rischi tuttavia non sono nulli. “Il pericolo maggiore – prosegue il docente – può venire dall’autodistruzione del reattore, dovuta all’interruzione del raffreddamento, come accadde a Fukushima, a seguito della distruzione dell’impianto refrigerante o della mancata alimentazione delle pompe. Allo spegnimento, infatti, i reattori conservano una potenza residua, che raggiunge il 6% di quella d’esercizio, per ridursi in alcuni giorni ai valori minimi della configurazione di ‘spegnimento freddo’, ma solo se la refrigerazione continua regolarmente.”
La legge internazionale protegge le centrali in caso di guerra, ma rimane incompleta
Ai reattori presenti sul suolo ucraino si aggiungono inoltre gli impianti di gestione e stoccaggio dei rifiuti radioattivi, provenienti non solo dai reattori stessi ma anche dall’uso di sorgenti di radiazioni in medicina, dalla scienza e da diverse industrie. Da metà XIX secolo, la comunità internazionale ha creato una serie di norme per regolare i conflitti armati, al fine di garantire il massimo rispetto dei diritti umani. Gli accordi hanno riconosciuto le centrali come obiettivi civili sensibili nel contesto bellico, tuttavia non tengono in considerazione i siti di stoccaggio, dai quali può ugualmente uscire materiale radioattivo in caso di attacco.
“Nel diritto umanitario – spiega Pascolini – chi lancia un attacco deve premunirsi affinché gli obiettivi non siano persone e oggetti civili e, una volta accertato il carattere militare del bersaglio, deve considerare se le morti e i danni ai civili, che comunque ci si aspetta come effetti collaterali, siano eccessivi rispetto al vantaggio militare.
Tra gli oggetti che beneficiano di questa speciale protezione rientrano anche le centrali nucleari, grazie al Comitato internazionale della croce rossa (International Committee of the Red Cross, ICRC) che nel 1956 introdusse tra le regole per limitare i danni civili anche la protezione di installazioni ‘contenenti forze pericolose’. Nel 1977 la Conferenza diplomatica ad hoc approvò così i Protocolli I e II (aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra del 1949) per la protezione degli impianti nucleari.
Va però osservato che, tra queste ‘forze pericolose’, non sono incluse installazioni come i reattori di ricerca e i depositi di materiale esausto, che possono contenere importanti quantità di materiale radioattivo. Tale esclusione è particolarmente grave, poiché sono localizzati soprattutto all’interno o in prossimità dei centri abitati e, quindi, la loro distruzione avrebbe un impatto immediato sulla popolazione.
Per quanto riguarda la situazione attuale in Ucraina, il caso più grave è stato l’attacco armato alla centrale di Zaporizhzhya, che appare come una violazione esplicita del Protocollo I e della Norma 42, oltre che delle stesse regole militari della Russia. Fortunatamente il coinvolgimento di strutture nucleari non ha prodotto finora vittime o contaminazione, tuttavia le installazioni nucleari racchiudono ‘forze pericolose’ di tale natura da richiedere un’attenzione particolare e continua.”
I sistemi di controllo oggi sono elevati. La priorità è tutelare il lavoro del personale
“Il rischio per le centrali nucleari in caso di guerra – afferma ad Agenda17 Francesco Forti, docente di Fisica presso l’Università di Pisa e segretario nazionale dell’Unione scienziati per il disarmo (Uspid) – è sicuramente importante, nel senso che se vengono bombardate possono andare fuori controllo come qualunque altro impianto industriale. Il bombardamento volontario di una centrale, infatti, ha la stessa intenzione distruttiva del lancio di un missile nucleare, anche se l’impatto è minore perché il materiale fissile nelle centrali ha un grado di arricchimento molto più piccolo e, quindi, una violenza di esplosione inferiore.
Naturalmente c’è poi il rilascio di materiale radioattivo nell’atmosfera, che può portare danni all’ambiente e alle popolazioni vicine. Tuttavia credo che l’attenzione vada posta principalmente sulle armi nucleari e sui rischi che comportano. Qualunque impianto industriale, infatti, è a rischio in caso di guerra, ma un danno alle centrali, per quanto importante, sarebbe comunque meno devastante del conflitto nucleare.”
I sistemi di sicurezza di una centrale nucleare sono oggi progettati per proteggerla da eventi interni ed esterni all’impianto. In ognuna ci sono almeno quattro barriere tra il nocciolo del reattore e l’ambiente esterno, una delle quali è l’edificio di contenimento, che protegge sia in caso di rilascio di materiale radioattivo sia in caso di eventi naturali estremi o attentati terroristici.
Tra le cause del disastro di Chernobyl, ad esempio, vi fu anche la mancanza di un edificio a tenuta stagna che potesse resistere alla pressione generata. Esistono oggi ancora quindici reattori della stessa tipologia in Ucraina e Russia, ma la loro sicurezza è stata aumentata limitandone la potenza e costruendo adeguati sistemi di contenimento.
Non manca tuttavia una certa preoccupazione per la situazione in Ucraina, in particolare per le condizioni di forte stress cui sono sottoposti i lavoratori degli impianti.
La centrale di Chernobyl, ad esempio, è stata occupata dalle truppe russe dal 24 febbraio al 31 marzo, con la motivazione da parte della Russia di voler impedire atti deliberati di sabotaggio. Il sito, infatti, poteva essere un rifugio sicuro dai contrattacchi visto il materiale radioattivo presente nella zona circostante.
L’IAEA ha da subito attivato il suo Incident and Emergency Centre (IEC), stabilito contatti con le autorità ucraine e monitorato costantemente l’attività degli impianti e delle fonti radioattive su tutto il territorio.
Tra i sette pilastri indispensabili per garantire la sicurezza degli impianti descritti nel report da poco rilasciato, rientrano il costante funzionamento degli strumenti per la sicurezza, la garanzia che il personale possa svolgere il proprio lavoro libero da indebite pressioni e la presenza di un’alimentazione sicura esterna dalla rete.
Sono i punti che più hanno preoccupato in questi mesi. Il personale di Chernobyl durante l’occupazione non ha avuto la possibilità di cambiare il turno con i colleghi. Inoltre, dal 9 al 14 marzo la centrale si è disconnessa dalla rete elettrica: non c’è stato un impatto critico sulle funzioni di sicurezza, ma sono comunque mancati il monitoraggio delle radiazioni, i sistemi di ventilazione e la normale illuminazione.
“Nel Mondo – afferma Alessandro Dodaro, direttore del Dipartimento fusione e tecnologie per la sicurezza nucleare dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) – esiste una rete di sensori per verificare eventuali aumenti di radioattività, cercare di capire a cosa sono dovuti e come intervenire. Nei giorni in cui i sensori a Chernobyl non hanno funzionato è sorta una certa preoccupazione, tuttavia quelli a confine con Polonia, Bielorussia e Romania continuavano a monitorare: potremmo dire che, se fosse successo qualcosa, l’avremmo saputo un’ora dopo anziché un minuto, ma l’avremmo saputo comunque.
Quando si tratta di nucleare, abbiamo adottato una cultura della sicurezza e della trasparenza portata, in senso positivo, all’eccesso, per cui cerchiamo sempre di avere il massimo delle informazioni e ogni falla nei sistemi di sicurezza tende subito a preoccuparci.”
Anche nel caso della centrale di Zaporizhzhya è stata assicurata l’integrità fisica dei reattori e dei sistemi di sicurezza, ma hanno preoccupato la situazione delle linee elettriche e la gestione dell’operatività della centrale. “Due delle quattro linee elettriche ad alta tensione – afferma Pascolini – furono danneggiate nei primi giorni del controllo russo e, per un certo periodo, l’impianto ha perso anche una terza linea. Secondo l’IAEA, l’impianto può operare in sicurezza con le linee a disposizione, poiché il sito possiede venti generatori di emergenza, tuttavia si riduce comunque la sicurezza della struttura.
La comunicazione istituzionale è inoltre severamente limitata e non sono state possibili ispezioni regolamentari ucraine in loco. Il problema principale riguarda l’operatività della centrale sotto il controllo russo: il personale ucraino ha continuato a operare regolarmente, ma c’è stato un impatto negativo sul morale e il senso di sicurezza.”
Nonostante le circostanze, tutti gli impianti nucleari hanno continuato a operare e i livelli di radioattività sono rimasti entro valori normali. Non c’è stato alcun rilascio radioattivo che potrebbe avere ricadute sul personale degli impianti, sulla popolazione e sull’ambiente.
Le centrali moderne sono sicure, anche in caso di bombardamento
In generale, gli incidenti nelle centrali nucleari sono misurati tramite la International Nuclear and radiological Event Scale (INES), con valori da 0 (non significativo per la sicurezza) a 7 (di maggiore gravità). L ‘incidente di Chernobyl, nel 1986, e quello di Fukushima nel 2011 sono stati di massima gravità.
“Un incidente grave – afferma Dodaro – avviene perché il nocciolo si surriscalda e può fondersi, o addirittura esplodere, o entrambe le cose. A Chernobyl il surriscaldamento del nocciolo ha fatto esplodere il contenitore di grafite, dal quale sono partiti proiettili che hanno portato con sé pezzi di combustibile. Pian piano, finita la portata propulsiva, il nocciolo si è fuso e oggi, dopo trentasei anni, rimane ancora molto caldo sotto il sarcofago.
Lo stesso tipo di incidente è avvenuto a Fukushima o a Three Mile Island (Stati Uniti, 1979) con la differenza che, essendo reattori ad acqua in pressione, il nocciolo può fondersi ma non c’è una struttura che possa esplodere e lanciare nell’atmosfera materiale radioattivo. Quando si parla di un possibile bombardamento a una centrale è a questo tipo di incidente che bisogna pensare, non a Chernobyl. Per questo, a mio avviso il nucleare rimane una tecnologia sicura anche in questo caso.”
Nel caso si verificassero un bombardamento, quindi, molto dipende dal tipo di centrale. “Le generazioni più moderne – aggiunge Forti – hanno un sistema di contenimento più raffinato rispetto alle centrali di generazione precedente. La conseguenza più probabile sarebbe uno spegnimento della centrale, un malfunzionamento o al massimo una fusione del nocciolo, come avvenuto a Fukushima. Una vera esplosione, invece, sarebbe molto più difficile.
A Fukushima, inoltre, il problema fu che la centrale aveva bisogno di un sistema di raffreddamento attivo, cioè di generatori diesel per mantenere l’acqua di raffreddamento del nocciolo e tenere la centrale sotto controllo. Lo tsunami invece ha fatto spegnere i generatori e, a quel punto, si è andati incontro alla fusione del nocciolo.
Le centrali di ultima generazione, invece, hanno un sistema passivo di raffreddamento per cui anche nel caso di mancanza di energia elettrica rimangono sotto controllo.
Sulle centrali di generazioni precedenti, che hanno muri di contenimento più sottili e quindi è possibile aprire delle brecce in maniera più facile, certamente un’esplosione potrebbe invece verificarsi, anche se certamente non paragonabile come violenza a quella di una bomba atomica.”
Monitorare la radioattività sul territorio permette di avere dati preziosi in caso di fallout radioattivi
Nel caso però si verificasse un fallout radioattivo, una delle attività preventive più importanti è il monitoraggio della radioattività sul territorio. Secondo il Trattato sulla Comunità europea dell’energia atomica (Euratom), tutti gli Stati membri devono “effettuare il controllo permanente del grado di radioattività dell’atmosfera, delle acque e del suolo”.
A differenza di altri Paesi europei, l’Italia non è attualmente provvista di questo monitoraggio. L’Italian Radioactivity Project (ITALRAD) dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) si è posto l’obiettivo di realizzare la cartografia completa della radioattività naturale su tutto il territorio italiano. Finora sono state prodotte le carte di Veneto, Umbria, Toscana e Sardegna.
“Come Laboratorio – spiega ad Agenda17 Fabio Mantovani, docente di Fisica e membro del Laboratory for Nuclear Technologies presso l’Università di Ferrara – siamo coinvolti nel sistema di monitoraggio ambientale della radioattività. Abbiamo sviluppato un velivolo dedicato sia per il monitoraggio sia per la ricerca di scorie che ci ha permesso di effettuare monitoraggi in diverse zone, dalla terra dei fuochi a varie Regioni italiane.
Si tratta di un’attività che non solo ci fornisce una serie di dati utili alla ricerca, ma soprattutto ci permette, con i campioni raccolti a terra e con il sorvolo dei territori, di produrre mappe che rappresentano la distribuzione naturale della radioattività. In caso di incidente nucleare, sono un riferimento molto importante per avere dei dati di confronto.”
(aggiornato ore 16:25 del 05/06/2022)