Il 2022 è stato proclamato dall’Organizzazione delle nazioni unite (Onu) anno dello sviluppo sostenibile della montagna. Come sottolineato in una recente pubblicazione dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis), in montagna si concentra la metà degli hotspot di biodiversità, la cui preservazione è fondamentale nell’opera di mitigazione dei cambiamenti climatici. Inoltre, la montagna è un luogo fragile, nel quale persistono profonde disuguaglianze a livello economico, sociale, territoriale e geomorfologico. Cosa significa allora, oggi, pensare a uno sviluppo sostenibile per questi territori?
“Lo sviluppo sostenibile – afferma ad Agenda17 Luca Mercalli, climatologo e presidente della Società meteorologica italiana (Smi) – è uno sviluppo che non deve nuocere alle generazioni future. A livello ambientale questa esigenza è in parte recepita dal recente aggiornamento in Costituzione ma, essendo la montagna un contesto particolarmente fragile, direi che tutto ciò che conosciamo dello sviluppo sostenibile va applicato in essa con maggiore scrupolo e attenzione.”
Recuperare l’esistente e sfruttare il telelavoro: la montagna del futuro
Recentemente il Consiglio dei ministri ha approvato, in esame preliminare, il disegno di legge Disposizioni per lo sviluppo e la valorizzazione delle zone montane, finalizzato a incentivarne lo sviluppo economico e contrastare lo spopolamento.
Inoltre, con la Strategia nazionale per la montagna italiana (Snami) si individuano le linee strategiche per lo sviluppo economico e sociale di questi territori, attraverso l’istituzione di un Fondo per lo sviluppo delle montagne italiane (Fosmit), per il quale sono previsti 100 milioni di euro nel 2022 e 200 milioni a partire dal 2023.
“La prima regola da seguire – commenta Mercalli – è che in montagna si deve solo recuperare l’esistente, senza costruire nulla di nuovo. Ci sono infatti molti villaggi abbandonati e borgate che cadono a pezzi, in zone turistiche costruite negli anni Sessanta, e questo patrimonio edilizio va riqualificato o ricostruito.
In secondo luogo, tutte le ristrutturazioni devono seguire criteri di edilizia sostenibile, rinnovabile e a basso impatto ambientale. Bisogna quindi partire dall’autosufficienza energetica e dall’isolamento termico delle abitazioni, per evitare di abitare la montagna inquinandola, oltre a tutte le pratiche che già conosciamo, dalla raccolta differenziata dei rifiuti alla depurazione delle acque reflue e la creazione di normative ad hoc.”
Il disegno di legge si rivolge soprattutto ai giovani con meno di trentacinque anni, con misure fiscali a favore dell’imprenditoria giovanile e interventi per agevolare l’accesso ai servizi di telefonia mobile e connessione alla rete.
“Anche una persona che ha cinquant’anni e maggiore esperienza – osserva Mauro Varotto, professore di Geografia all’Università di Padova e coordinatore del Gruppo Terre Alte del Comitato scientifico centrale del Club alpino italiano (Cai) – dovrebbe però avere accesso a questi fondi, perché è importante il ruolo intermedio di quelle fasce di età che devono trasmettere le proprie conoscenze. Tutti, quindi, devono poter ricevere questi sostegni.”
È tuttavia importante mantenere delle distinzioni, prevedendo altri tipi di criteri per l’assegnazione dei fondi. “Ad esempio – prosegue Varotto – il decreto prevede una classificazione dei Comuni montani, tuttavia ci sono Comuni che hanno al loro interno delle vere e proprie città: se gli incentivi finiscono a chi acquista un mutuo in centro o in una località turistica, viene meno l’obiettivo dello sviluppo sostenibile, che significa invece cura e manutenzione dell’ambiente alpino e appenninico.
Inoltre, considerare il territorio montano come un’unica entità o solo in base alla stratificazione altimetrica è riduttivo, perché in molti casi la difficoltà non è la quota ma la pendenza, con tutte le difficoltà che comporta. Infatti, sono soprattutto le basse quote ad avere grossi problemi, perché sopra i 1500-2000 metri l’attività antropica è relativamente concentrata sul turismo e quindi, spesso, non c’è bisogno di incentivi.”
“Si tratta di un mondo – aggiunge Mercalli – che va compreso e amato, per cui sconsiglierei di abitare in montagna a chi non ha questa attitudine. Premesso ciò, però, una grande opportunità per chi vuole viverci è oggi il telelavoro. Un tempo infatti i lavori di montagna erano legati al territorio, quindi agricoltura e allevamento, l’uso dei boschi e, dagli anni Trenta, il turismo.
Oggi invece possiamo portarvi una grande quantità di mestieri, che possono essere svolti a distanza grazie a un computer e una buona connessione. Si tratta di un’incredibile occasione di fecondazione culturale e la mia speranza è che, in futuro, permetta di ripensare anche al rapporto tra montagna e città, adattandolo alla realtà contemporanea.”
Il primo cambiamento deve essere culturale
Anche secondo il rapporto Abitare la montagna nel post-covid di Legambiente, la diffusione del lavoro a distanza potrebbe contribuire a una nuova abitabilità del territorio, con una concezione urbanistica delle terre alte orientata al recupero e all’adeguamento dell’esistente. La strategia da adottare, seppur guidata da un comune intento, dovrà comunque prevedere modalità differenti a seconda delle esigenze delle comunità locali.
La crescente attenzione per la montagna e il cambiamento di prospettiva è un segnale peraltro già in atto grazie alla Strategia nazionale per le aree interne (Snai). Un cambiamento che già nel 2019 aveva portato alla produzione del Manifesto di Camaldoli per una nuova centralità della montagna.
“Il manifesto – afferma Varotto – è stato promotore di una nuova visione per la montagna, che si stava già diffondendo in tanti ambiti culturali, istituzionali e sociali. In questa prospettiva, il nuovo disegno di legge va nella direzione giusta, come tutte le iniziative che servono a garantire i servizi minimi essenziali per la montagna a livello sanitario, scolastico, di infrastrutture e di connettività, senza i quali non si può pensare che la gente torni a viverci.
Il problema di fondo, però, è la differenza tra abitare ‘in’ montagna e abitare ‘la’ montagna. Le misure per la montagna non dovrebbero infatti essere semplicemente per la residenzialità o l’imprenditorialità, ma dovrebbero tendere a un cambio di paradigma, verso la cosiddetta nuova geografia delle montagne di mezzo.
Ciò significa che, se vogliamo contrastare l’abbandono, dobbiamo distinguere tra chi abita in montagna ma è sostanzialmente un pendolare e non si prende cura della realtà del luogo, e chi invece è attivo nel complesso ambiente naturale e culturale in cui vive.”
Il ritorno alla montagna cui assistiamo oggi, seppur parziale ed episodico, è un’inversione di tendenza rispetto allo spopolamento del decennio del boom economico. Questo processo dovrebbe mettere di nuovo al centro la montagna, in passato considerata come luogo del tempo libero e dello svago, oppure come compensazione naturalistica funzionale a ridurre gli impatti prodotti dalla città e dalla pianura.
“Dovremmo invece ritornare – prosegue Varotto – a un’idea più impegnata dello stare in montagna: persone che la mettono al centro dei propri progetti e, allo stesso tempo, non abbandonano la città, anzi creano un’interazione con essa. Queste figure, che si caratterizzano anche per l’alta formazione e la competenza culturale, sono profili interessanti che vanno oltre i soliti cliché e gli stereotipi del montanaro di una volta.”
Semplificare la burocrazia, soprattutto per le piccole realtà
Secondo Mercalli, l’applicazione delle normative si scontra con un sistema burocratico complesso: “i progetti dovrebbero nascere all’interno delle comunità e nel confronto con i vari professionisti, come architetti, climatologi e forestali, anziché essere formulati lontano da questi luoghi e poi calati dall’alto senza attenzione alle esigenze di chi vive nelle borgate.”
“Questa situazione – concorda Varotto – favorisce le grandi aziende, che possono supportare la burocrazia, l’accesso ai fondi e la rendicontazione. Ci vorrebbero invece dei facilitatori che aiutino i soggetti più deboli a districarsi in queste pratiche, oppure bisognerebbe indirizzarli a unirsi in cooperative che aiutano a sostenere i carichi di burocrazia, come già accade per altre finalità.
Si tratta di immaginare situazioni in cui, da un lato, si mantengono le attività legate al settore primario o all’artigianato di montagna, ma dall’altro si aggiungono l’educazione ambientale, l’ospitalità turistica, una nuova dimensione culturale e i servizi minimi essenziali, per i quali sono nate le cooperative di comunità.”