“Nessuna scelta monoenergetica è saggia. Ogni fonte di energia ha i suoi pro e contro: la cosa più intelligente da fare è un mix che sia il più variegato possibile e compatibile con l’ambiente. Il problema dell’energia, infatti, se lo si affronta nell’ottica di ‘questo è meglio di quello’, non trova una soluzione adeguata alle esigenze delle società moderne” afferma ad Agenda17 Fabio Mantovani, docente di Fisica e membro del Laboratory for Nuclear Technologies presso l’Università di Ferrara.
In una situazione di instabilità come quella attuale, il tema della pianificazione energetica è tornato centrale nel dibattito economico e geopolitico. I due incontri organizzati dal Master in giornalismo scientifico hanno cercato di far luce sulla possibilità di rinunciare a gas e nucleare nella transizione verso le rinnovabili.
Di fronte all’ulteriore emergenza rappresentata dalla guerra in Ucraina, abbiamo cercato quindi di approfondire maggiormente il ruolo dell’energia nucleare nella pianificazione energetica con due esperti dell’Università di Ferrara.
Usare le tecnologie già disponibili per incentivare la ricerca sulle rinnovabili
Secondo la US Energy Information Administration (EIA), in assenza di significativi cambiamenti a livello politico e tecnologico, tra il 2020 e il 2050 il consumo di energia a livello mondiale aumenterà del 50%, a causa soprattutto del forte sviluppo delle economie emergenti asiatiche.
La produzione di energia rinnovabile avrà la crescita maggiore, grazie al calo dei costi e a leggi più favorevoli. Tuttavia gas naturale, carbone e l’uso sempre più consistente delle batterie rimarranno fondamentali per sostenere le risorse solari ed eoliche.
“La soluzione migliore in questo momento – afferma ad Agenda17 Michele Pinelli, docente di Macchine a fluido presso l’Università di Ferrara – è proseguire su quello che stiamo già facendo. La guerra, ad esempio, ha messo sotto gli occhi di tutti un aspetto che chi si occupa di energia rilevava da dieci anni: l’importanza dell’approvvigionamento di gas naturale.
Sono d’accordo nell’averlo inserito nella tassonomia europea, perché se si fa un’analisi tecnica, economica, sociale e ambientale della transizione, emerge che anche il gas, come fonte primaria immediata, ci può permettere di accelerarla.
Un’altra tecnologia in cui credo molto, e secondo me attuabile nel breve termine, ma da più parti sottovalutata, è la biomassa, cioè l’energia che proviene da scarti e rifiuti. È una grande opportunità, che va nella direzione della sostenibilità e dell’economia circolare e può avere un impatto quasi immediato nella transizione.
Occorre però superare pregiudizi e prese di posizione ideologico-politiche. Per affrettare gli investimenti sulle rinnovabili, infatti, bisogna stare tranquilli sulla produzione energetica quotidiana: se il pericolo è non poter più accendere il frigo, sono convinto che nessuno vorrebbe parlare di rinnovabili.”
La pianificazione energetica richiede tempi lunghi e collaborazione tra Stati
“Il problema dell’energia che emerge in questi giorni – aggiunge Mantovani – è un problema di tempi e di spazi, che sono poco congeniali con quelli delle moderne democrazie. Prima di tutto la pianificazione energetica richiede piani decennali, e difficilmente i governi oggi fanno scelte su periodi così lunghi, oltre al fatto che i rinnovamenti politici delle elezioni possono portare a cambiare frequentemente le scelte in tema di energia.
Dall’altro lato, la pianificazione va necessariamente oltre i singoli Stati perché la rete elettrica è fortemente interconnessa. Ad esempio, l’Italia ha comprato per molti anni energia elettrica prodotta dai reattori nucleari europei, soprattutto di notte a prezzi scontati, per pompare acqua nelle dighe dei nostri numerosi impianti idroelettrici.
È chiaro quindi che non è facile avere, e conservare, una pianificazione decennale. Per questo, se si vuole mettere in campo il nucleare, ma anche il gas, bisogna tenere conto che si tratta di investimenti di lunga durata.”
Non a tutti conviene il nucleare, ma è utile per investire nelle nuove tecnologie
La produzione di energia elettrica da centrali nucleari necessita di una complessa filiera, che va dall’estrazione dell’uranio allo smaltimento delle scorie. Inoltre, se da un lato i reattori hanno il vantaggio di produrre molta energia con poco materiale, dall’altro hanno il limite di non essere modulabili, cioè non possono essere spenti e riaccesi in base alla minore o maggiore richiesta di energia durante la giornata.
“Quando parliamo di nucleare – sottolinea Pinelli – dobbiamo distinguere tra chi già lo possiede e chi dovrebbe costruirlo. I primi fanno bene a sfruttarlo, soprattutto in questo momento, mentre la costruzione di nuove centrali può essere difficilmente attuabile o non conveniente. Ci vogliono infatti più di dieci anni, con costi enormi e un ritorno dell’investimento molto avanti nel tempo, quando magari saranno mature altre tecnologie.
Tuttavia non sono contrario a qualche nuova centrale di ultima generazione, di piccola taglia e impatto contenuto. Dipende molto dalla situazione specifica e in Italia la vedo difficile. Ci vorrebbero studi approfonditi, che considerano innumerevoli fattori della sostenibilità, per capire se siamo ancora in tempo a investire nella tecnologia nucleare.”
Secondo il World Nuclear Industry Status Report, il 2021 è stato l’anno con il maggior numero di chiusure di reattori nucleari degli ultimi dieci anni. Dei sei nuovi reattori connessi alla rete, invece, tre sono in Cina, gli altri in Pakistan (da una compagnia cinese), India ed Emirati Arabi Uniti.
“I nuovi reattori – commenta Pinelli – sono quasi tutti cinesi. L’Europa invece si è data delle regole, tuttavia oggi Francia o Regno Unito non potrebbero fare a meno della loro filiera e, se subiscono meno l’impatto delle recenti problematiche di approvvigionamento di gas, è proprio perché hanno le centrali nucleari.
In Italia, invece, potremmo dover riattivare, anche se parzialmente e per un tempo limitato, le centrali a carbone. Questo dimostra come certe scelte fatte quindici anni fa abbiano oggi un impatto negativo sulla decarbonizzazione: a mio avviso, infatti, pensare di doverle riaccendere è frutto di quelle decisioni sbagliate, che ci rallentano rispetto agli investimenti in tecnologie necessarie per la transizione energetica.”
La fusione nucleare: previsti reattori commerciali entro dieci anni. Ma solo secondo i privati
Il recente risultato ottenuto all’interno del progetto ITER, che punta a promuovere la ricerca europea sulla fusione nucleare, ha alimentato l’entusiasmo per la possibilità di raggiungere reattori commerciali in tempi più brevi rispetto a quelli ipotizzati finora.
“Quello che la tecnologia potrà darci nei prossimi cinquant’anni – continua Pinelli – è, per certi versi, imperscrutabile. Probabilmente la fusione diventerà una fonte di energia, ma dieci anni sono molto ottimistici. O meglio, sono previsioni fatte da chi sta investendo per attrarre finanziamenti e vanno benissimo, perché più investiamo e più acceleriamo la transizione.
Di fronte però all’urgenza del cambiamento climatico, la fusione non è una soluzione. Lo sono piuttosto la transizione energetica nella sua interezza e ciò che ragionevolmente si può fare nei prossimi cinque o dieci anni. Ci sono infatti tecnologie già mature da poter essere implementate senza dover aspettare i tempi incerti della fusione. Io vedo un profilo più tra i venti e i trent’anni, ma sono comunque previsioni con margini di aleatorietà molto grandi.”
Nel 2021, secondo la Fusion Industry Association (FIA), a livello mondiale ci sono almeno trentacinque società di fusione. Delle ventitré che hanno partecipato al sondaggio, la maggior parte (65%) è stata fondata dopo il 2010 e diciotto di esse hanno ricevuto 1,8 miliardi di dollari di finanziamenti privati, a fronte degli 85 milioni pubblici.
A questa cifra si aggiungono ulteriori incrementi dichiarati dopo la pubblicazione del report lo scorso ottobre, che portano il totale stimato a oltre 4miliardi di dollari.
“Le prospettive di produzione commerciale nel 2030 – conclude Mantovani – sono date tutte da compagnie private che, ovviamente, sono più ottimiste del settore pubblico perché devono attirare finanziamenti. La novità però è proprio la presenza dei privati.
Questa storia mi ricorda quanto accadde alla fine del secolo scorso nel settore spaziale statunitense. In quegli anni, alla National Aeronautics and Space Administration (NASA), nel dibattito sull’opportunità di sviluppare un vettore successivo allo Space shuttle, prevalse l’idea di lasciarlo in mano ai privati, senza i quali, di fatto, gli americani oggi non andrebbero in orbita.
Così oggi, nel business della fusione, ci sono non solo gli istituti pubblici che fanno ricerca, ma anche i futuri player privati. Non è una dinamica necessariamente negativa: l’ingresso di investimenti privati, infatti, può essere letto come un avvicinamento allo sfruttamento industriale dell’energia da fusione. Il percorso è ancora lungo e ricco di incognite e, per questo, è difficile fare previsioni. La storia insegna che l’impiego di una tecnologia innovativa è sempre un processo più lento di quello che ci si aspetta.”