A più di due anni dall’inizio della pandemia Covid-19 abbiamo un quadro più completo, non solo della natura del coronavirus, ma anche della malattia. “Mentre inizialmente si pensava che fosse solo un’influenza – afferma Carlo Contini, docente di malattie infettive e direttore dell’Unità complessa di malattie infettive dell’Università di Ferrara – poi il SARS-CoV-2 ha mostrato di avere i connotati di un virus che può sostenere una malattia grave, soprattutto nelle persone fragili e nelle persone con immunodeficienza.
Poi il virus ha colpito praticamente tutti indistintamente, in tutte le Regioni italiane. Anche Ferrara, che inizialmente sembrava non esserne direttamente coinvolta, ipoteticamente protetta dall’immunizzazione contro la malaria o la beta-talassemia”. Ma abbiamo visto che era solo questione di tempo.
Long-Covid: quando i sintomi si protraggono a mesi dall’infezione
E con il tempo, sono emersi anche gli effetti a lungo termine di Covid-19: la condizione di persistenza di sintomi, che può riguardare soggetti di qualunque età e con varia severità della fase acuta di malattia, è stata riconosciuta come una entità clinica specifica, denominata Long-Covid.
Le manifestazioni cliniche sono assai variabili: affaticamento, problemi di memoria e concentrazione, e difficoltà cardiorespiratorie.
Uno studio in via di approvazione dell’Università di Birmingham ha individuato ben 115 sintomi che possono essere associati, con diverso grado di probabilità, al Long-Covid.
“Tra i fattori di rischio sono stati riscontrati: il sesso femminile, un’età compresa tra i diciotto e i trent’anni, l’essere fumatori e l’obesità”, spiega Contini.
Uno studio americano recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista Cell ha individuato altri quattro fattori di rischio per lo sviluppo del Long-Covid, indipendentemente dalla gravità della malattia iniziale: la presenza di autoanticorpi, il livello di RNA virale nel sangue all’inizio dell’infezione, la riattivazione del virus di Epstein-Barr (responsabile della mononucleosi) e il diabete di tipo 2.
Il diabete sembra essere non solo un fattore di rischio, ma anche una possibile conseguenza di Covid-19: un’analisi retrospettiva condotta dal Center for Disease Control and Prevention mostra infatti un aumento dell’incidenza di diabete di tipo 1 e 2 in pazienti pediatrici (inferiori ai diciotto anni).
Tra le altre conseguenze che destano preoccupazione, un recente studio dell’Università di Oxford pubblicato sulla rivista Nature indica che l’infezione da SARS-CoV-2 può causare perdita di materia grigia e danno ai tessuti cerebrali. Questi risultati sono stati osservati in pazienti non ospedalizzati, e suggeriscono che anche un decorso non grave della malattia può avere conseguenze preoccupanti in un momento successivo. Viene riportato inoltre un aumentato declino cognitivo, anche se non è ancora chiaro quali siano effettivamente le implicazioni funzionali, né se il danno sia reversibile.
Monitoraggio e ricerca per comprendere e gestire il Long-Covid
Il termine Long-Covid è stato utilizzato inizialmente come termine ombrello per indicare tutti i sintomi che persistono dopo la fase acuta dell’infezione, ma lo scorso ottobre l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha stabilito una definizione ufficiale che ne delinea la tempistica: si considera Long-Covid la condizione in cui gli individui, con una storia di confermata o probabile infezione da SARS CoV-2, presentano tutti i sintomi, non associabili ad altre condizioni patologiche, a tre mesi dall’infezione e per almeno altri due mesi.
“I sintomi che invece si presentano nel periodo precedente, da uno a tre mesi dall’infezione – spiega Contini –, sono associabili alla patologia Covid-19 ancora in corso.”
Secondo l’Oms, avere una definizione standard del Long-Covid è un passo fondamentale per aumentarne la consapevolezza tra i medici: identificando più facilmente i pazienti è infatti possibile fornir loro cure adeguate. La specificazione consentirà inoltre di promuovere la ricerca in maniera sinergica e globale per meglio definire l’entità del fenomeno.
I meccanismi fisiopatologici del Long-Covid non sono ancora del tutto chiari, sebbene varie evidenze indichino principalmente una disfunzione del sistema immunitario. Secondo Contini “questa non-guarigione sembrerebbe dovuta a una condizione di infiammazione persistente: questa è la vera causa del Long-Covid”.
Ma i vaccini sono in grado di proteggerci anche dal Long-Covid? Secondo l’infettivologo è ancora presto per avere dati definitivi a riguardo, anche se alcuni studi sembrano puntare in questa direzione.
Per meglio comprendere il fenomeno del Long-Covid e uniformarne la gestione clinica a livello nazionale, l’Istituto superiore di sanità (Iss) ha dato il via al progetto CCM per il monitoraggio del Long-Covid, tramite l’implementazione di una rete nazionale e di una piattaforma digitale per la condivisione di report e “buone pratiche” in termini di cura e prevenzione.