La legge 194 del 1978 consente alla donna di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza (ivg) in una struttura pubblica, regolamentando i casi previsti e le procedure da seguire. Prima della sua pubblicazione, l’esecutore dell’aborto e la donna erano perseguibili penalmente con una pena da due a cinque anni di reclusione.
Questa legge, fondamentale per la salute e per i diritti delle donne, negli anni ha visto un’applicazione sempre minore, contrastata e difficoltosa. L’obiezione del personale sanitario e ausiliario, garantita dall’articolo nove, ha di fatto man mano schiacciato il diritto delle donne ad abortire.
Nel nostro Paese, in ventidue ospedali e quattro consultori tutto il personale, dai ginecologi agli anestesisti fino al personale infermieristico e agli operatori socio sanitari, si dichiara obiettore. A questi vanno aggiunti diciotto ospedali in cui tutti i ginecologi sono obiettori. In queste strutture di sanità pubblica la legge non viene mai applicata. Ci sono poi ben 118 strutture ospedaliere in cui l’obiezione supera l’80%.
Sono undici le Regioni in cui c’è almeno un ospedale con il 100% di obiettori: Abruzzo, Basilicata, Campania, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana, Umbria, Veneto. Ad Andria (Puglia) sono tutti obiettori: dai ginecologi al personale non medico. Sempre in Puglia, nel Polo ospedaliero di Francavilla Fontana, più del 90% di medici ginecologi, anestesisti e infermieri sono obiettori.
Questi dati, ancora parziali, che fotografano una realtà rimasta in ombra nell’ultima relazione annuale del Ministero della salute al Parlamento sull’attuazione della Legge 194, emergono dalla ricerca “Mai Dati” su obiezione di coscienza e applicazione della legge 194, promossa dall’Associazione Luca Coscioni. Il lavoro, ancora in corso, è curato da Chiara Lalli, filosofa esperta di bioetica, e Sonia Montegiove, analista informatica, programmatrice e giornalista.
“I dati del Ministero sono una fotografia sfocata – scrivono le autrici della ricerca sul sito dell’associazione – perché sono dati ‘chiusi’, forniti cioè solamente aggregati e in formato pdf. Ecco perché abbiamo mandato una richiesta di accesso civico generalizzato alle singole aziende sanitarie locali e ai presidi ospedalieri chiedendo i numeri specifici per struttura. Chiedendo di aprire i dati, quei dati che dovrebbero essere già aperti.”
Una mappa per capire a quale ospedale rivolgersi
Nella relazione del Ministero, i dati non solo sono aggregati solamente per Regione, ma il loro aggiornamento si ferma al 2019. Così, senza la possibilità di avere chiara la situazione reale di ogni struttura sanitaria pubblica, una donna che sceglie di interrompere la gravidanza non sa dove andare per veder garantito il proprio diritto.
La relazione ministeriale così elaborata non è di alcuna utilità per l’utente. Nella “mappa ideale”, invece, devono essere soprattutto immediatamente identificabili quali sono i territori in cui si può abortire e quali quelli letteralmente inaccessibili.
Dalla ricerca dell’Associazione Luca Coscioni si delineano poi situazioni discordanti da quelle descritte nella relazione ministeriale. In Molise, ad esempio, una delle Regioni off limits per le donne che intendono intraprendere un percorso ivg, per il Ministero sono ventiquattro i ginecologi obiettori, a fronte dei 27,5 su ventinove comunicati dall’Azienda sanitaria regionale in risposta alla richiesta di Lalli e Montegiove.
La Libera associazione italiana ginecologi non obiettori per l’applicazione della 194 (Laiga) per prima in Italia ha portato avanti un progetto, ancora attivo, per realizzare una mappa degli ospedali che offrono servizio ivg. Le utenti possono contribuire all’aggiornamento della mappa segnalando esperienze incongruenti rispetto alle informazioni riportate.
Pressione sulle istituzioni e informazione pubblica: le strategie della campagna #LiberaDiAbortire
Alla luce di questi dati allarmanti, è evidente che spesso il diritto di abortire è prevaricato da quello di obiezione del personale medico e sanitario. Su questo fronte, peraltro, si è mosso anche il Comitato europeo per i diritti sociali del Consiglio d’Europa che ha condannato l’Italia nel 2016 e nell’aprile 2021 per aver violato il diritto alla salute delle donne che vogliono abortire, riconoscendo che queste incontrano notevoli difficoltà nell’accesso ai servizi ivg, anche per l’alto numero di medici obiettori di coscienza.
#LiberaDiAbortire è una campagna promossa da Radicali italiani, con un tour che in febbraio ha fatto tappa a Roma, Milano e Firenze, con il supporto di tante attiviste tra i diciotto e venticinque anni ma anche di molti uomini, per la tutela del libero accesso all’aborto nel nostro Paese. La manifestazione proseguirà in altre città nei prossimi mesi.
La campagna agisce fornendo innanzitutto informazioni concrete sull’interruzione volontaria di gravidanza, attraverso un vademecum online, che si rivolge anche a minorenni o straniere senza il permesso di soggiorno, e indica una serie di associazioni di riferimento per assistenza logistica e legale o supporto psicologico.
La campagna, lanciata a maggio 2021, ha raccolto finora 30mila firme e muove anche un appello urgente al Governo: in particolare chiede al Ministro della salute Speranza sette azioni per rendere sicuro e privo di ostacoli il percorso ivg, e assieme a tutte le associazioni aderenti chiede che vengano date disposizioni alle Regioni per assumere medici non obiettori.
Giulia Crivellini, avvocata e tesoriera di Radicali Italiani, chiarisce ad Agenda17: “proponiamo delle azioni tangibili per migliorare la legge 194, prevedendo anche penalizzazioni nei finanziamenti per quelle Regioni che non garantiscono percorsi ivg. Sosteniamo l’inserimento delle procedure ivg nel calcolo dei livelli essenziali di assistenza (lea) che raccolgono le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini con le risorse pubbliche, perché questo è un diritto alla salute delle donne.”
La campagna ha anche come obiettivi l’obbligatorietà di formazione e aggiornamento del personale sanitario coinvolto nelle pratiche di ivg, e un’adeguata formazione nelle Scuole di specializzazione in ostetricia e ginecologia. Le associazioni chiedono poi che vengano promossi e finanziati progetti continuativi di informazione sessuale e affettiva nelle scuole, così da assicurare la piena conoscenza dei diritti riproduttivi delle persone.
Il vuoto comunicativo delle istituzioni
Come afferma ad Agenda17 Francesco Mingiardi, avvocato e presidente di Radicali Roma, tra i promotori della campagna: “l’informazione è fondamentale, e registriamo la totale mancanza di comunicazione istituzionale su questo tema. L’informazione dovrebbe essere prima di tutto istituzionale. Da parte nostra, siamo impegnati in un’attività di informazione su tutti i canali, da quelli tradizionali ai social, dove esiste un dibattito che riguarda le donne, ma coinvolge anche gli uomini, che cercano di formarsi e informarsi.”
“Il Ministero della salute – aggiunge Crivellini -, sul sito di riferimento non fornisce indicazione alcuna su come è possibile accedere all’ivg dopo il termine dei novanta giorni (il cosiddetto ‘aborto terapeutico’). Questa mancanza è gravissima, perché le donne che ricevono diagnosi di grave malformazione del feto, stante all’informazione istituzionale, non hanno la minima idea di come muoversi.
Tanto è vero – continua – che a #LiberaDiAbortire si è rivolta recentemente una ragazza, in Lombardia, che pensava di dover portare avanti la gravidanza e poi dare in adozione il figlio. Stava vivendo una situazione molto, molto critica dal punto di vista psicologico all’idea di dover partorire. Ma aveva purtroppo trovato sul suo percorso sia informazioni scorrette fornite da personale obiettore di coscienza, sia, aspetto ancora più grave, il vuoto informativo da parte delle istituzioni preposte.”
Come #LiberaDiAbortire, anche l’Associazione Luca Coscioni si rivolge al Governo e alle Regioni, chiedendo, tra le altre cose, l’istituzione di un osservatorio permanente, al fine di mettere in luce gli ostacoli identificati dall’Organizzazione mondiale della sanità all’accesso di un percorso ivg ancora presenti nel nostro Paese.
L’aborto clandestino esiste ancora. Sono necessarie indagini adeguate
In Italia l’aborto clandestino esiste ancora: le ultime stime (per difetto) disponibili riferiscono un numero di casi tra i 10mila e i 13mila. E in parte sono anche il risultato di ritardi e impedimenti di un percorso che dovrebbe essere invece un diritto.
Quelli illegali rappresenterebbero quasi il 15% del totale degli aborti. Percentuale, questa, che non può che essere approssimativa e datata, riferendosi a una valutazione dell’Istituto nazionale di statistica (Istat) del 2016 già inserita nella relazione annuale presentata nel 2017 dall’allora Ministro Lorenzin. E nonostante l’impegno del Ministero di replicare la stima per gli anni successivi, con dati sempre più aggiornati e consolidati, non sono mai state portate avanti nuove valutazioni, tanto che la relazione del 2021 si riferisce ancora al 2016.
“Una cifra calcolata sulla base di un modello statistico – spiega ad Agenda17 Silvana Agatone, ginecologa presidentessa di Laiga –, alla quale si arriva incrociando il numero di donne fertili, le interruzioni di gravidanza, le nascite. Abbiamo provato a richiedere al Ministero delle ricerche specifiche e più aggiornate, ma evidentemente non c’è la volontà di raccogliere questi dati.”
“Per quanto riguarda le pratiche clandestine di aborto – denuncia la campagna #LiberaDiAbortire – i sistemi di rilevazione statistica sono inadeguati rispetto ai farmaci con effetti abortivi oggi comunemente reperibili, oltre che rispetto alle mutate dinamiche sociali e demografiche.”
La ginecologa Veronica Sabelli rileva che “gli aborti clandestini esistono ancora e sono difficili da scovare. Pensate che in una città come Roma esistono solo tre strutture pubbliche dove è possibile richiedere una ivg. Quello che è cambiato negli anni è che, con l’aumentare degli obiettori di coscienza nelle strutture pubbliche, chi può permetterselo viaggia all’estero in Paesi come l’Inghilterra oppure in Paesi dell’Est Europa”.
Nel 2016 è stata depenalizzata l’ivg clandestina, al contempo però è stata innalzata la sanzione pecuniaria, che è passata dalla cifra simbolica di cinquantuno euro a una multa dai 5mila ai 10mila euro. Chi ha abortito clandestinamente, e ne subisce gli effetti, non è dunque assolutamente incentivata a ricorrere al Servizio sanitario nazionale, né purtroppo a denunciare chi pratica attività illecite e dannose per la salute delle donne.
In questo contesto emerge poi, ancora una volta, “la conseguenza culturale e sociale dello stigma, che fa ricadere la responsabilità prevalentemente su chi accede a una ivg clandestina, invece di ampliare e garantire l’accesso gratuito e sicuro per tutte le donne che ne hanno necessità”, denuncia #LiberaDiAbortire.
La 194 è ancora una buona legge. Bisognerebbe applicarla
“Come tutte le leggi, anche la 194 può essere migliorata – dichiara ad Agenda17 Pantaleo Greco, direttore della Scuola di specializzazione in ostetricia e ginecologia di Unife e del reparto ostetricia e ginecologia dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Ferrara -. Ma anche se ha più di quarant’anni, è ancora un’ottima legge.
In Italia ha funzionato e funziona – continua Greco –. È una delle più avanzate in Europa, perché permette alla donna la libera decisione entro novanta giorni. Senza alcuna interferenza, la donna è assolutamente abile, capace di decidere cosa vuole fare del proprio corpo. Entro un limite di tempo onesto e civile.”
Secondo Agatone, la legge è ottima. Deve solo essere applicata, e come per diverse leggi in Italia, non c’è nessuno che ne controlla l’applicazione. “Fu un qualcosa di epocale quando fu approvata – dichiara Agatone –, perché esplicitò che gli enti ospedalieri devono garantire l’ivg, entro i novanta giorni ma anche oltre quel termine.”
“Il problema – continua la presidentessa di Laiga – sono proprio la delega dell’attuazione alle Regioni e il vulnus sull’applicazione della legge. In alcune città, come Fermo ad esempio, non è stata mai attuata, mentre in Umbria è stata diramata un’ordinanza regionale che richiede alle donne che praticano l’ivg un soggiorno in ospedale di tre giorni. Questo ovviamente rappresenta un problema per le donne che per esempio lavorano e devono assentarsi per un periodo prolungato, e un ostacolo all’applicazione del libero diritto di scelta, oltre che un costo esorbitante per il Servizio sanitario nazionale.”
È sconvolgente sapere che ancora oggi le donne che decidono di abortire ( scelta sempre molto difficile) non possano trovare medici, ospedali o strutture sanitarie dove rivolgersi per fare questo intervento in sicurezza.
Bisogna purtroppo ancora mobilitarsi perché questo diritto sia garantito a tutte le donne.