Qualche luce, molte ombre ma soprattutto tanti spunti per immaginare possibili strategie per il futuro. È quanto emerge dai dati contenuti nell’Annuario Scienza Tecnologia e Società 2022, che sarà presentato in anteprima mercoledì 23 febbraio all’Università di Torino e il 19 marzo al Master in giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza dell’Università di Ferrara.
Gli indicatori monitorati dall’Annuario, che dal 2005 fornisce dati utili a comprendere il rapporto tra ricerca scientifica e società italiana, segnalano alcune tendenze di lungo periodo. Innanzitutto il tema delle risorse umane, da cui lo sviluppo della ripresa non può prescindere.
Fra gli ultimi in Europa per numero ricercatori, ma la qualità è buona
In Europa, secondo i dati raccolti dal centro di ricerca indipendente Observa che pubblica l’Annuario, siamo al sedicesimo posto per numero di laureati e addottorati nelle discipline scientifiche, ottenendo risultati inferiori rispetto a Paesi concorrenti come Germania, Francia e Regno Unito, ma anche rispetto a Romania, Slovenia, Lituania e Repubblica Ceca. Inoltre, l’Italia è tra i Paesi europei con il minor numero di ricercatori: sei ogni mille abitanti, a fronte dei quindici della Svezia, i tredici del Belgio, gli undici della Francia e i dieci di Germania e Portogallo, ben al di sotto della media Ue (nove).
I recenti dati sul finanziamento al bando Starting Grant dell’European Research Council (ERC) sanciscono però le abilità dei ricercatori italiani: su 397 finanziamenti a ricercatori europei, cinquantotto vanno a ricercatori italiani (cinque in più rispetto al 2020). Un dato che li colloca al secondo posto, dietro solo ai tedeschi.
La Germania, infatti, è per il secondo anno di fila la locomotiva della ricerca europea con sessantasette riconoscimenti, nove in più dell’Italia. Seguono la Francia con quarantaquattro, l’Olanda con ventisette e la Spagna con venticinque.
Non solo meritevoli ma anche produttivi. Dal 2011, infatti, i ricercatori italiani hanno pubblicato 758.293 articoli scientifici, collocandosi al settimo posto, dopo colossi come Stati Uniti, Cina, Germania, Inghilterra, Giappone e Francia. Potremmo, a ragione, dire che le prestazioni dei ricercatori italiani sono dunque migliori di quelle delle istituzioni. Infatti, i finanziamenti ERC sono assegnati al singolo ricercatore, che può utilizzarli dove meglio crede. E qui arriva la nota dolente.
Nessuna istituzione di ricerca italiana ai vertici
Se analizziamo i dati delle istituzioni che ospitano i ricercatori che hanno vinto i Grants, scopriamo che l’Italia scende al quinto posto. Metà dei ricercatori italiani che si sono aggiudicati un finanziamento, infatti, lavora all’estero.
La scarsa competitività delle istituzioni di ricerca italiane è riscontrabile nel fatto che tra le prime dieci istituzioni di ricerca che hanno beneficiato dei finanziamenti del Programma quadro europeo per la ricerca e l’innovazione Horizon 2020, per esempio, non troviamo nemmeno un’italiana.
Inoltre, tra le migliori dieci università al Mondo non troviamo nemmeno un nostro ateneo. Identico risultato anche se ci limitiamo al “solo” contesto europeo.
Il problema non è la “fuga dei cervelli”
Tuttavia l’Italia è al sesto posto per progetti finanziati dall’ERC. Il gap con gli altri Paesi può essere ricondotto alla scarsa capacità delle istituzioni di ricerca di attrarre ricercatori dall’estero.
Il problema non è dunque rappresentato dai cosiddetti “cervelli in fuga”, ma dall’attrazione di risorse qualificate dall’estero. Secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse, Organization for Economic Cooperation and Development OECD), infatti, rispetto ad altri Paesi sono una quota relativamente ridotta gli stranieri che decidono di fare una parte del loro percorso formativo in Italia.
Su questo dato pesano diversi aspetti: il nostro tessuto produttivo, caratterizzato perlopiù da piccole-medie imprese e dunque poco compatibile con ingenti investimenti in ricerca e sviluppo (R&S), la lingua di insegnamento, la mancata valorizzazione del dottorato di ricerca al di fuori della carriera accademica e, ovviamente, gli scarsi investimenti in borse di studio.
Finanziamenti: un ritardo storico mai colmato
I finanziamenti alla ricerca sembrano risentire di un ritardo storico. L’Italia vi investe l’1,4% del Prodotto interno lordo (Pil), una quota decisamente inferiore alla media europea (2,1%) e a quella Ocse (2,5%).
Nella classifica dei Paesi che investono di più in R&S, l’Italia è tra quelli che finanziano meno la ricerca scientifica.
Nel ranking mondiale risultiamo ventiseiesimi, dietro a Israele, Corea, Germania e Francia ma anche a Slovenia, Repubblica Ceca e Ungheria. Neanche guardando alla capacità innovativa va meglio. I dati presentati dall’Annuario mostrano che nella classifica dei Paesi europei più innovativi, stilata dall’Innovation Union Scoreboard, siamo solo tredicesimi dopo Islanda ed Estonia.
Un’importante opportunità può essere ora il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che nella Missione 4 “Istruzione e ricerca” prevede di destinare a quest’ultima oltre nove miliardi di euro.