In principio era la comunicazione. Nel mondo della medicina è proprio così: la pandemia e la conseguente campagna vaccinale hanno portato con sé anche un’ondata enorme di informazioni che spesso ha preso alla sprovvista addirittura gli addetti ai lavori. Il risultato è una grande confusione e la preoccupazione che ritorna a farsi sentire con la possibilità delle vaccinazioni ai bambini.
Sembra chiaro perciò che, se pur spesso bistrattata, tendenzialmente classificata come un ingrato compito da assolvere e troppo spesso tirata in causa quando ormai è troppo tardi, la comunicazione è in verità il punto focale dell’ambiente sanitario: tassello insostituibile tra i membri di una équipe, elemento fondamentale nella relazione con il paziente.
Forse il problema sta nella difficoltà di uniformare quanto più possibile i concetti e protocollare i risultati, così da poter creare dei percorsi standardizzati e ripetibili anche da persone diverse. Ma come si sa la comunicazione nasconde un lato umano che si sposa difficilmente con la definizione di “protocollo”.
È un problema che dipende sia dal contenuto da comunicare sia dal comunicatore, e se da un lato risulta possibile (e anche necessario) cercare di elaborare dei contenuti scritti per facilitare la comprensione e la diffusione di informazioni sanitarie, dall’altro è importante che l’operatore sanitario divenga responsabile e capace di un’opera di adattamento dei contenuti al tipo di paziente che ha di fronte.
Tra tutti gli ambiti, tra l’altro, quello pediatrico è certamente uno dei più complessi: esso presenta una difficoltà duplice perché richiede al comunicatore non solo una semplificazione della terminologia clinica (pur mantenendo inalterati i concetti), ma anche la capacità di trasportare il dialogo a un piano intellettivo diverso, apparentemente superficiale ma in effetti alquanto profondo.
Health Literacy in pediatria: il bambino informato affronta le cure con sicurezza e risultati migliori
Per affrontare al meglio questo tema è opportuno considerare alcuni aspetti. Il primo è quello di Health Literacy, termine che compare nel 1998, quando l’Organizzazione mondiale della sanità ha deciso di inserire questo concetto tra i termini del Glossario di promozione della salute, indicandolo come un’importante strategia di empowerment.
Si tratta di un termine coniato per designare la capacità di un individuo di prendere decisioni efficaci e consapevoli riguardanti la propria salute all’interno dei vari contesti di vita: a casa, nella comunità, sul luogo di lavoro, nel sistema sanitario. Questa abilità, ovviamente, implica il raggiungimento di un livello di conoscenze, di capacità individuali e di fiducia in se stessi tali da spingere gli individui ad agire per migliorare la propria salute e quella della collettività, modificando lo stile e le condizioni di vita personali.
Recenti studi hanno dimostrato che bassi livelli di Health Literacy influenzano negativamente lo stato di salute delle persone, rappresentando un fattore di rischio. Soggetti con un basso livello di Health Literacy, infatti, non utilizzano in modo appropriato i servizi sanitari, hanno più difficoltà a seguire le indicazioni mediche, ad assumere farmaci in modo corretto e a mantenersi in salute.
Le ricerche sul campo hanno inoltre individuato le tre categorie di persone più a rischio: anziani, immigrati e soggetti con un basso livello di istruzione.
Menzione particolare merita l’ambito pediatrico che, in parte, afferisce all’ultimo gruppo “a rischio” delle persone con basso livello di istruzione (in questo caso si tratta di una condizione temporanea ma pur sempre presente).
Tuttavia, a differenza di altre fasce di età nella stessa condizione, la fascia pediatrica vanta un alto livello di curiosità e di capacità di apprendimento, aspetti che se correttamente valutati potrebbero costituire un interessante punto a favore nella comunicazione.
La Health Literacy in ambito pediatrico assume dunque delle connotazioni speciali e la sua utilità non si limita a un effetto sul presente. È ormai riportato in letteratura il fatto che il bambino informato affronta le procedure cliniche con maggior sicurezza e risultati migliori rispetto a quello che non viene coinvolto. Va ricordato però, anche, che il lavoro di educazione sanitaria ed educazione alla salute che si rivolge alle nuove generazioni avrà inevitabilmente ripercussioni sul futuro visto che i bambini di oggi saranno gli adulti di domani.
Consenso informato. I ruoli di bambini e genitori cambiano con l’età
Se, dunque, il focus che qui ci interessa è quello della vaccinazione in età pediatrica, non si può ignorare tutto il grande percorso di comunicazione e informazione che deve necessariamente essere fatto. Qui si entra però in un mondo difficile perché in medicina l’aspetto legale assume sempre una grande importanza e il lavoro dei professionisti sanitari non può prescindere da esso.
Quando parliamo di consenso informato in ambito pediatrico, infatti, rimangono molte zone grigie tra ciò che è legale, etico e morale e la cosa risulta talvolta poco definibile e dal confine incerto.
La legge 219/17 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) regola l’espressione del consenso informato nel rispetto dei principi della Costituzione Italiana e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Dopo aver definito i concetti legali e aver specificato che rendere comprensibili le informazioni in modo che siano utili al paziente per esprimere la propria decisione in maniera autonoma (art. 1 comma 2) è compito e responsabilità scientifica del medico/equipe sanitaria (art. 1 comma 2 e 10), sancisce che, in caso di minore, gli esercenti della responsabilità sono il genitore o il tutore tenendo conto della volontà del minore stesso “in relazione alla sua età e al suo grado di maturità”.
In particolare, secondo gli attuali orientamenti, potremmo riassumere il comportamento a cui attenersi secondo tre fasce di età principali:
- prima dei 6-7 anni un bambino non può esprimere un consenso autonomo;
- tra i 7 e i 13 anni un bambino può in qualche misura essere coinvolto nel consenso, anche se è necessario e prevale quello dei genitori;
- dopo i 14 anni il bambino dovrebbe essere prioritariamente coinvolto anche se il consenso compete legalmente ai genitori.
Come ci si dovrebbe comportare perciò? E come può essere definita la misura di coinvolgimento nell’informazione così come previsto dalla legge?
Non sembra facile capirlo ma, nonostante l’espressione del genitore/tutore abbia il sopravvento e si confermi come l’unica davvero necessaria ai fini legali, sembra utile e sensato parlare di consenso informato anche nei confronti del paziente pediatrico stesso, sia come diritto all’informazione, sia come forma educativa che trova nel coinvolgimento alla procedura una naturale espressione e un miglioramento del risultato finale in termini di benessere psicologico e fisico del soggetto coinvolto.
L’importanza dell’informazione in ambito pediatrico prima e durante (dove possibile) la procedura clinica è un aspetto che è stato studiato e trova riscontro in letteratura. La maggior parte degli studi, tuttavia, si rivolge al campo oncologico e a quello delle cure palliative sfociando in un settore che, tra quelli in cui si può sperimentare la comunicazione in ambito sanitario, rappresenta uno dei più complicati e delicati.
Per tale motivo si è deciso di valutare solo quegli studi che prendono in esame procedure chirurgiche standard (che potremmo in linea teorica assimilare anche alla più semplice esecuzione di un prelievo o inoculazione di un farmaco) e dove quindi si fa riferimento a una comunicazione scientifica che deve avere il compito di coinvolgere il bambino nella procedura ma non anche quello di approcciarsi ai concetti di “sofferenza prolungata” e “fine vita”.
Studi sulla comunicazione in sanità pediatrica: tante utili raccomandazioni pratiche
Uno studio estremamente vasto e completo è quello realizzato dal Sydney Children’s Hospital in collaborazione con la School of Psychology e la University of New South Wales in Australia e dal Departments of Psychology and Pediatrics, University of Saskatchewan in Canada. Si tratta di una review e sintesi del 2007 che giunge a conclusioni interessanti, stilando una tabella delle raccomandazioni cliniche per l’informazione in ambito pediatrico (assieme al loro livello di evidenza).
Tra le raccomandazioni riguardanti contenuti e informazioni vengono riportati:
- l’importanza di includere sia informazioni sensoriali che procedurali (raccomandazione di tipo I: supportata cioè da almeno due studi controllati realizzati in un contesto sanitario pediatrico);
- l’utilizzo di informazioni specifiche e dettagliate piuttosto che generali (raccomandazione di tipo II: supportata cioè da almeno uno studio clinico realizzato in un contesto sanitario pediatrico o da più studi non clinici);
- l’importanza di fornire consigli sulle strategie di coping (oltre alle informazioni sulla procedura) in modo particolare per quei bambini che hanno già vissuto esperienze mediche stressanti (raccomandazione di tipo II);
- l’importanza di informare i bambini sulla probabilità di una procedura dolorosa (raccomandazione di tipo II).
Compaiono inoltre, ma come raccomandazioni di livello III (cioè raccomandazioni teoriche ma mai sperimentate in un contesto clinico pediatrico a mezzo di studi):
- l’importanza di non utilizzare un linguaggio emotivo;
- la raccomandazione di non fornire spiegazioni per trattamenti alternativi, in particolare per bambini piccoli, a meno che non si tratti di adolescenti (dove questo aspetto è valutabile);
- l’importanza di utilizzare un linguaggio appropriato a seconda dello sviluppo del paziente;
- la raccomandazione di dare ai bambini la possibilità di fare domande rispetto alle varie procedure che si prospettano;
- l’importanza di valutare se i bambini stanno usando schemi di salute imprecisi o distorti per interpretare le informazioni mediche.
Rispetto, invece, alla modalità di informazione, nello stesso studio viene riportato che:
- l’utilizzo di metodiche come i video risulta un metodo utile a fornire informazioni preparatorie ai bambini (raccomandazione di tipo I);
- l’utilizzo di giochi non è un metodo sufficiente per informare i piccoli pazienti (raccomandazione di tipo II);
- Le informazioni scritte dovrebbero essere accompagnate da immagini (raccomandazione di tipo II).
Non sono presenti, invece, raccomandazioni di tipo I rispetto al timing dell’informazione. Alcune raccomandazioni di tipo II, tuttavia, suggeriscono che:
- bisognerebbe ridurre al minimo la comunicazione immediatamente prima o durante la procedura di informazioni relative alla procedura stessa;
- per le principali procedure mediche i bambini di età superiore ai sei anni dovrebbero ricevere un preavviso di almeno cinque giorni;
- i bambini richiedono meno preavviso per le procedure minori e risultano meno angosciati da queste rispetto alle procedure principali.
Un secondo studio riporta anche, più in generale, le strategie di Health Literacy per la comunicazione orale e scritta con il paziente. Per la prima, in particolare, raccomanda:
- l’utilizzo di un luogo tranquillo e appartato;
- la partecipazione, se possibile, dei famigliari;
- il tentativo di limitare la discussione ai 2-3 punti principali;
- l’uso di una terminologia quanto più familiare (i termini medici andrebbero limitati a quei casi in cui è importante, per i pazienti, familiarizzare con quel dato termine;
- l’utilizzo di immagini o modelli.
Per la soluzione scritta, invece, invita all’utilizzo di sequenze informative logiche e di un numero limitato di messaggi (Glick A.F. et al., 2019).
Notevole importanza, oltre all’informazione del bambino, riveste poi la Health Literacy di genitori e parenti affini, che non solo hanno il compito di scegliere al posto del minore, ma rappresentano anche, agli occhi dei piccoli pazienti, la garanzia di una procedura eseguita per il loro bene.
Per tale motivo sembra ragionevole coinvolgere i genitori nella gestione di qualsiasi procedura clinica e far comprendere loro che non si tratta solo di delegare agli operatori sanitari il compito comunicativo ed esecutivo della procedura.
In una Review di Kampouroglou G. et al, i cui risultati sono stati pubblicati nella rivista “Chirurgia” nel 2019, pur ricordando che i pochi studi a disposizione non consentono di avere risultati specifici, si conclude che, nella maggior parte dei casi, i genitori con un basso livello di Health Literacy, avevano maggiori probabilità di percepire difficoltà relative all’accesso alle cure e a fare affidamento sulle opinioni/proposte del medico per quanto riguarda il processo decisionale.
Bisogna tenere presente, inoltre, che i bambini ripongono una fiducia nei loro genitori che non deve in alcun modo essere tradita: rimane pertanto cosa opportuna istruire il genitore affinché non si preoccupi di sminuire gli eventi a scopo protettivo. Il bambino va informato in modo corretto: ciò che deve cambiare, a seconda del caso, sono la modalità dell’informazione e il linguaggio utilizzato.