Il sovraffollamento è la piaga più nota delle carceri italiane ma, secondo l’ultimo rapporto di metà anno pubblicato da Antigone, ci sono altre carenze, forse ancora più rilevanti, di cui tener conto per garantire il rispetto dei diritti dei detenuti sancito dalla Costituzione. Secondo l’associazione, infatti, le precarie condizioni delle carceri e la mancanza di personale civile sono altrettanto, se non maggiormente, importanti della scarsità di spazio individuale.
Il tasso di affollamento, stando all’ultimo monitoraggio di Antigone, era del 113,1%. Al 31 dicembre 2021 i detenuti presenti nelle carceri italiane erano poco più di 54mila (54.134), a fronte di poco più di 50mila posti ufficialmente disponibili, anche se il Garante ne riconosce qualche migliaio in meno (47.775).
L’articolo 27 della Costituzione italiana afferma il principio fondamentale di umanità della pena detentiva e la finalità di rieducazione del condannato. Il decreto legislativo 124 del 2018, inoltre, promuove attività che responsabilizzano il detenuto in funzione del suo reinserimento nella società, a partire dalla formazione professionale e dalla partecipazione a progetti di pubblica utilità.
I numeri del sovraffollamento nascondono forti disparità territoriali
Nel 2016 la Commissione europea individua tra le cause del sovraffollamento carcerario, comune a diversi Paesi dell’Unione, la progressiva estensione dei crimini punibili con la detenzione, ad esempio gli atti di microcriminalità, e la parallela mancanza di riorganizzazione del sistema carcerario per accogliere tutti i detenuti.
“La questione del sovraffollamento – afferma ad Agenda17 Alessio Scandurra, dell’Osservatorio Adulti sulle condizioni di detenzione presso l’associazione Antigone – è l’elemento di maggiore interesse per chi si occupa di carcere, tuttavia ha un significato relativo. È un dato che emerge dalla proporzione tra i presenti e la capienza regolamentare, che però è calcolata diversamente nei vari Paesi europei. Ne deriva ad esempio che noi risultiamo sovraffollati rispetto ad altri anche perché prevediamo, almeno sulla carta, una metratura più ampia a disposizione di ogni detenuto, quindi lo spazio disponibile è di fatto minore.
Inoltre, il sovraffollamento è un ragionamento erroneo perché basato esclusivamente sugli spazi. Ogni detenuto, in quanto persona giuridicamente non autosufficiente, avrebbe bisogno di un agente per fare qualunque cosa. L’idea, quindi, di misurare la capienza regolamentare solo sugli spazi, come avviene, è debole perché è assurdo considerare ugualmente affollati due istituti con i medesimi spazi e detenuti, ma di cui uno magari conta la metà del personale.”
In Italia la situazione è molto disomogenea tra le Regioni. Il tasso peggiore è del Friuli-Venezia Giulia (139,5%), seguito da Puglia e Lombardia, mentre la situazione migliora in Valle d’Aosta e Sardegna.
“Ad oggi – afferma ad Agenda17 Stefania Carnevale, docente di Diritto dell’esecuzione penale presso l’Università di Ferrara – la situazione è nettamente migliorata sotto il profilo del sovraffollamento. Quando l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per il sovraffollamento endemico strutturale, con la sentenza Torreggiani del 2013, eravamo attorno ai 70mila detenuti. Sono stati fatti molti passi avanti in tal senso, con una pressione nelle carceri non comparabile a quella di allora.
Tuttavia, prima dell’emergenza pandemica la popolazione carceraria stava comunque crescendo di circa 2000 unità all’anno. Il Covid ha provocato un sensibile decremento delle presenze con la riduzione sia dei condannati definitivi sia di quelli in custodia cautelare, cioè chi, durante il procedimento penale, passa dei periodi, o tutto il periodo del processo, in istituto detentivo. Così, da circa 61mila del periodo pre-pandemico si è arrivati a circa 53mila a fronte della necessità di creare spazi per l’isolamento, che rimangono comunque insufficienti.
Al di là della contingenza pandemica, però, dobbiamo considerare che non tutti gli istituti sono nelle stesse condizioni. I numeri nascondono profonde differenze territoriali e, dove la situazione apparentemente può sembrare migliore, potrebbero ad esempio esserci intere sezioni non utilizzabili per ristrutturazioni o perché inagibili. Quindi risultano pochi detenuti, che però vivono in situazioni non ottimali.”
Costruire nuove strutture è lungo e costoso, meglio risanare gli edifici esistenti
Il sovraffollamento infatti non è il problema principale. Come rilevato da Antigone, ci sono criticità come la carenza di docce o la presenza di finestre schermate.
“In molti istituti – commenta Carnevale – ci sono docce al piano condivise da tutta una sezione, che magari ha una cinquantina di detenuti, spesso mancano impianti di areazione e si verificano problemi di illuminazione e riscaldamento. È chiaro che in una situazione di emergenza sanitaria ciò comporta diversi rischi.
La soluzione non è la costruzione di nuovi edifici: l’esperienza insegna che, nei Paesi dove si è perseguita questa politica, le nuove strutture si sono riempite rapidamente. Chiaramente ciò non significa che non siano utili, soprattutto per avere più ambienti finalizzati ad attività rieducative, educative e socializzanti. Però non è la soluzione definitiva ai problemi del sovraffollamento, delle recidive e di tutte le questioni che gravitano attorno alla pena.”
La legge 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario mise in atto i dettami costituzionali circa la finalità rieducativa della pena, affermando, tra le altre cose, la necessità di assicurare al detenuto un lavoro e la parità di condizioni di vita negli istituti penitenziari.
“Il carcere – aggiunge Scandurra – nasce come istituzione chiusa dove si isolano le persone. Dopo la riforma del 1975 inizia a diventare un luogo che mira alla rieducazione, che però è un compito di tutta la collettività.
Il carcere deve quindi aprire le sue porte, instaurare relazioni costruttive con la società (attraverso volontariato, cooperative sociali, e realtà simili che già esistono) e chiedere un impegno maggiore a enti locali e imprese del territorio. È abbastanza razionale pensare che non sia il carcere da solo a farlo, non funzionerebbe: se il mondo esterno non è pronto o è escluso da questo discorso, infatti, quando la persona esce non può che essere sola.
Cosa c’è da fare? Bisogna andare avanti su questa strada, senza necessariamente inventare qualcosa di nuovo, ma prendendo quello che c’è e fare in modo che sia vero per tutti i detenuti e non per una piccola minoranza.”
In Italia pene detentive troppo lunghe. Bisogna incentivare le misure alternative
La pena detentiva è solo una delle pene possibili previste dalla Costituzione. “Nonostante l’esistenza di diverse forme di punizione e detenzione – specifica Carnevale – che restringono la libertà, la maggioranza delle persone continua a scontare la pena in carcere, che dovrebbe invece essere riservato ai casi più gravi.
In tutti gli altri casi si dovrebbero percorrere altre vie: chi le ha intraprese, in altri Paesi, ha raggiunto grandi risultati, anche dal punto di vista della sicurezza collettiva e non solo dei diritti dei detenuti. Inoltre, se il carcere davvero fosse riservato ai casi più gravi, sarebbe anche possibile osservarli meglio e mettere in atto percorsi specifici anche di lunga durata.
In secondo luogo, consideriamo che una delle cause del sovraffollamento in Italia è la lunghezza delle pene. Sembra una banalità, ma una condanna a vent’anni significa che una persona occupa uno spazio per vent’anni.
Si può quindi intervenire incentivando le pene alternative. Sarebbe bene che fosse introdotto e applicato un sistema di pene più ampie già dalla fase processuale, in modo da partire immediatamente. Oggi, infatti, le misure alternative non sono applicate dal giudice con la sentenza ma solo in seguito.”
Il sistema attuale prevede una ricca gamma di misure alternative, tra cui in particolare l’affidamento in prova al servizio sociale, varie forme di detenzione domiciliare, la semi libertà e la liberazione condizionale.
“Il mondo politico purtroppo – conclude Carnevale – teme di non soddisfare le esigenze dell’elettorato, per cui va cambiata la cultura dal basso. Concentrarsi sulla pena detentiva non ripaga dal punto di vista della sicurezza perché non agisce sulla prevenzione del rischio di recidiva, che è legata alla capacità di consentire un positivo rientro nella società.
Il carcere infatti ha tre funzioni principali: ci sono quella deterrente, che ha lo scopo di distogliere dal commettere comportamenti illeciti, e quella rieducativa che, per il carcere in quanto tale, è dimostrato essere quella con minor successo. Infine c’è la funzione retributiva, che è finalizzata a soddisfare il nostro bisogno di giustizia.
Delle tre sicuramente il carcere soddisfa quest’ultima. Il bisogno di punire chi ha sbagliato è innato, non va rinnegato. Ma siamo sicuri che quel modo di punire è l’unico che ci appaga? Possiamo essere appagati sapendo che le persone sono comunque punite, anche severamente, ma fuori dal carcere? Su questo tutti i tecnici sono d’accordo ed è la domanda che dobbiamo porci in primis noi elettori.” (1.Continua)