Nell’arcipelago di Tonga, una catena di isole ubicate nell’Oceano Pacifico a Nord-Est della Nuova Zelanda, le attività di soccorso a seguito della violenta eruzione vulcanica sottomarina proseguono a rilento a causa dei significativi danni strutturali a edifici e viabilità.
La coltre di fumo, registrata dai satelliti della National Aeronautics and Space Administration (NASA), non solo ha seriamente danneggiato le infrastrutture, ma ha anche contaminato le acque limitrofe amplificando i rischi sanitari e ambientali a cui la nazione e i suoi 100mila abitanti sono esposti.
Recenti studi pongono l’attenzione su questi rischi. Ricerche effettuate in Paesi economicamente sviluppati come Stati Uniti, Giappone e Islanda confermano l’impatto negativo causato all’uomo. Ma sono ancora troppo poche le indagini tese a comprendere i fattori di rischio sugli effetti a lungo termine.
La questione si estende a livello globale se si considera che al Mondo circa un miliardo di persone vivono nel raggio di 100 km da un vulcano attivo, una distanza che, secondo gli esperti, oltre a essere un potenziale rischio per la vita può implicare gravi danni alla salute.
Durante la fase eruttiva e di persistente degasaggio, vengono rilasciate in atmosfera ingenti quantità di componenti volatili in grado di depositarsi nei polmoni con serie ripercussioni sulla salute.
Ma cosa sappiamo delle conseguenze di un tale fenomeno a seguito di un periodo di esposizione prolungato e costante?
La salute è più a rischio di quanto sappiamo
Da un recente studio pubblicato sul Bullettin of Volcanology, la rivista ufficiale dell’International Association of Volcanology and Chemistry of the Earth’s Interior (IAVCEI), gli esperti sostengono che l’esposizione prolungata a emissioni vulcaniche può provocare seri danni oculari, dermici e cardiovascolari oltre a un aumento dell’utilizzo di farmaci e di servizi sanitari, ma la correlazione con malattie potenzialmente fatali non è approfondita: se le eruzioni vulcaniche portino a una serie di complicanze connesse a tumori e disturbi cardiorespiratori rimane una questione da indagare.
Risultati ottenuti negli anni precedenti al 2000 sostengono che nel complesso c’è una correlazione tra le emissioni vulcaniche e danni ai polmoni. Tuttavia solo poche ricerche hanno proseguito la raccolta di informazioni nell’arco di tempo necessario, stimato nell’ordine dei decenni, per verificare la diretta correlazione tra malattie a lunga latenza come pneumoconiosi o manifestazione di tumori e attività vulcaniche.
Nel 1986 il National Institute for Occupational Safety and Health (NIOSH) ha condotto studi di laboratorio per definire indici di tossicità di varie sostanze eventualmente presenti nella cenere vulcanica. Per queste analisi è stata comparata la tossicità delle ceneri del St. Helens (1980, USA), El Chichon (1982, Messico), Galunggung (1983, Indonesia) con quella di un minerale di tossicità nota.
I risultati confermano che esposizioni ripetute ad alte concentrazioni di ceneri vulcaniche possono rappresentare un potenziale rischio per lo sviluppo di pneumoconiosi, e riportano che le ceneri sono assimilabili, come tossicità, al quarzo e alla barite.
Inoltre, gli effetti negativi sono legati alle piccole dimensioni delle particelle (< 10 micron), che le rendono altamente respirabili.
Finora sappiamo per certo che gli studi sull’inquinamento atmosferico urbano hanno evidenziato la grande pericolosità delle emissioni legate al traffico veicolare e, nello specifico, come il microparticolato prodotto dai gas di scarico e dalle attività industriali sia la causa di malattie respiratorie e cardiovascolari sia acute che croniche, oltre che dell’aumento di incidenza di tumori ai polmoni.
In futuro sarà possibile determinare se queste conseguenze sono attribuibili anche al particolato di origine vulcanica? Sarà innanzitutto necessario approfondire la conoscenza riguardo i fattori di rischio connessi per comprendere più nel dettaglio il fenomeno.
Quanto è rischioso? Dipende dal tipo di eruzione
Raramente viene fatta un’immediata valutazione sulla salute della popolazione a seguito dell’esposizione all’inquinamento atmosferico vulcanico. Questo accade perché la priorità è tesa a garantire le adeguate condizioni sanitarie e psico-fisiche alle comunità evacuate e alla gestione delle vittime.
Tuttavia lo studio riporta che, con un’analisi tempestiva, è possibile avere una proiezione affidabile del grado di rischio, analizzando il tipo di eruzione e le sue proprietà chimico-fisiche.
Ad esempio le caratteristiche delle ceneri vulcaniche, in particolare la geometria e le dimensioni delle particelle, forniscono una previsione sul grado di pericolosità in caso di inalazione e ingerimento.
La superficie delle particelle di cenere è invece un indice di rischio legato alle piogge acide o a sostanze disciolte in falde acquifere.
Un altro strumento utilizzato per determinare la tipologia di eruzione è la scala VEI (Volcanic Explosivity Index) che classifica da zero a otto le eruzioni vulcaniche su base quantitativa e qualitativa del fenomeno. I parametri presi in considerazione sono il volume del materiale piroclastico estruso, l’altezza della colonna eruttiva, la durata dell’eruzione, la frammentazione del magma e l’areale coinvolto dalla caduta di scorie.
Nonostante siano fornite delle linee guida utili alla prevenzione, le analisi vengono raramente completate entro i giorni o le settimane in cui possono verificarsi esposizioni acute.
Etna e tumori: in Sicilia c’è una correlazione
Un incremento del tasso di tumore alla tiroide è stato riscontrato nei pressi del vulcano più grande d’Europa: l’Etna.
A dirlo è lo studio di un’equipe di scienziati dell’Università di Catania che ha rilevato una percentuale del 52% di casi di cancro papillifero tiroideo, contro il 33% riscontrati in altri luoghi della Sicilia. Questo tipo di malattia è tra le forme più aggressive di cancro.
Secondo i ricercatori, i responsabili sarebbero dei composti tossici legati all’attività del vulcano siciliano, che si trovano sospesi nel particolato e in grado di contaminare l’acqua potabile. Di fatto metalli pesanti come ferro, manganese, vanadio e Radon 222, sono stati rilevati nelle falde acquifere nei pressi dell’Etna oltre i limiti massimi consentiti per legge.
Gran parte dell’acqua fornita a Catania e alle sue province proviene dal sistema acquifero dell’Etna. L’acqua durante il passaggio nella roccia vulcanica reagisce con la CO2 e diventa acida: ciò potrebbe favorire il rilascio di elementi chimici dannosi.
Nonostante gli scienziati affermino che ulteriori studi saranno decisivi nel confermare la capacità delle sostanze rilevate di influenzare la funzione della tiroide e l’effetto mutageno, la ricerca iniziata a Catania ha suscitato grande attenzione da parte della comunità scientifica riguardo l’identificazione di potenziali fattori di rischio in aree in cui sono presenti vulcani attivi.
I Paesi ricchi hanno i dati. Si sviluppano anche ricerche “dal basso”
Secondo il Global Volcanism Program, dal 2001 a oggi ci sono state 124 eruzioni con un VEI uguale o maggiore di tre (classificabile come catastrofica), mentre dai dati raccolti dallo studio si rileva che, nello stesso intervallo di tempo, sono stati effettuati quarantotto studi medici su ventitré vulcani coinvolti.
La scarsità di analisi mirate in relazione al numero di eruzioni che si verificano a livello globale è l’ostacolo maggiore alla comprensione degli effettivi fattori di rischio per l’uomo.
La disponibilità di risorse economiche per finanziare la ricerca sembra essere il fattore determinante per ampliare le conoscenze: la maggior parte degli studi sono condotti in Paesi come Stati Uniti, Giappone e Islanda, sotto-rappresentando eruzioni di grande portata avvenute in Paesi con un’economia poco sviluppata. Questa diseguaglianza ha fatto sì che gli impatti sulla salute di molte eruzioni importanti, e talvolta di lunga durata vicino a grandi popolazioni, non siano stati studiati al meglio.
The International Volcanic Health Hazard Network (IVHHN) ha già sviluppato dei metodi e protocolli per lo screening rapido e standardizzato sui campioni di cenere.
L’adozione di tali metodi su larga scala e una costante raccolta di informazioni sul particolato vulcanico consentiranno lo sviluppo di un database globale e renderanno più facilmente comparabili i risultati tra differenti studi con lo scopo di valutare fattori di rischio e incidenza sulla salute.
Si valutano inoltre delle tecniche per l’analisi della qualità dell’aria puntuali: le reti di sensori per gas e particolato sembrano essere uno di queste.
Oltre a essere a basso costo, questi sistemi di rilevamento permettono l’applicazione e la gestione dei sensori direttamente nelle zone di interesse, e coinvolgono la popolazione locale nella ricerca e nella sperimentazione incentivando attività di citizen science sul territorio.
Per il futuro la ricerca dovrà sviluppare dei metodi per un’accurata e tempestiva valutazione dei rischi per la salute connessi all’esposizione vulcanica, e perfezionare i modelli meteorologici e di dispersione delle nubi e dei prodotti tossici per le popolazioni.