Nella pandemia in corso abbiamo imparato ben presto come ciascuno di noi reagisca in maniera differente al virus, soprattutto in base all’età. In età avanzata, infatti, SARS-CoV-2, il virus responsabile della malattia Covid-19, è molto spesso associato a sintomi gravi e a un’elevata letalità.
I casi clinici hanno evidenziato che gli anziani, rispetto ai giovani, hanno una risposta immunitaria più debole, aspetto che li rende più suscettibili all’infezione e alle sue forme gravi, e di conseguenza necessitano di un richiamo vaccinale più frequente.
Grazie a una ricerca delle Università di Ferrara e di Bordeaux ora sappiamo anche il perché.
Lo studio, pubblicato su Frontiers in Immunology, si è concentrato in particolare su una delle “cellule guardie” del sistema di vigilanza che ci protegge dagli attacchi esterni: i linfociti T CD8+. Il loro compito è quello di riconoscere ed eliminare le cellule che sono state infettate da un patogeno (nel nostro caso il coronavirus SARS-CoV-2). Nei soggetti che non sono mai stati esposti sono presenti cellule T di questo tipo definite naive, “vergini”, che, come delle reclute alle prime armi, devono riconoscere il nuovo virus e affrontare la minaccia fino ad ora sconosciuta.
Negli anziani, le cellule di guardia del sistema immunitario non lanciano l’allarme
Prelevando campioni di sangue da donatori sani di diverse età e mai entrati in contatto né con il virus né con il vaccino, è stato possibile simulare l’attivazione delle cellule guardia. Lo studio ha mostrato che, con l’avanzare dell’età, i linfociti T CD8+ sono meno numerosi e meno efficienti nel riconoscere il virus.
Considerando che più questi linfociti sono presenti e correttamente funzionanti, più siamo protetti dal Covid-19, la loro carenza si traduce in un più alto tasso di mortalità e in manifestazioni più severe della malattia, come la compromissione della funzionalità di cuore e polmoni e il conseguente ricovero nelle unità di terapia intensiva.
Sulla base di tali risultati emerge in modo ancora più cruciale il ruolo della vaccinazione per i soggetti con età superiore ai sessantacinque anni. Il vaccino infatti, oltre a stimolare la produzione di anticorpi, determina l’attivazione dei linfociti T naive, le reclute del sistema immunitario, trasformandoli in “cellule della memoria”, più numerose e più reattive, che, come dei veterani di guerra, sono capaci di riconoscere e neutralizzare tempestivamente le minacce che vengono dall’esterno.
Per realizzare lo studio sono stati raccolti diciannove campioni di sangue da donatori anonimi di gruppi di età differenti. La raccolta è stata effettuata dalla Banca del sangue dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Ferrara prima di dicembre 2019 o durante il 2020. In quest’ultimo caso i donatori dovevano fare un test sierologico per verificare di non essere mai entrati a contatto con il coronavirus e quindi di non avere già gli anticorpi specifici per SARS-CoV-2, il virus che provoca Covid-19.
I campioni di sangue raccolti sono stati infettati con il virus in vitro (nella provetta) per osservare se le “reclute” T CD8+ presenti naturalmente nel nostro sistema di vigilanza immunitaria riconoscessero il pericolo e suonassero l’allarme. Ciò che è stato osservato è che effettivamente nei campioni appartenenti a soggetti più giovani l’allarme suona e la minaccia viene subito attaccata, mentre negli anziani questo non avviene.
La ricerca conclude un progetto iniziato nel 2020 presso il Center for International Health della Ludwig Maximilian University di Monaco di Baviera.
Ora sono chiari il meccanismo di infezione e l’efficacia del vaccino
“La novità dello studio, dal punto di vista metodologico molto complesso – spiega il ricercatore Francesco Nicoli coordinatore delle aree medica e biologica della ricerca -, sta nell’aver osservato proprio questi linfociti, escludendo qualsiasi fattore confondente, per poter misurare le risposte solo in base all’età dei soggetti.”
Dallo studio emerge un’attivazione insufficiente dei linfociti T CD8+naive, qualitativamente e quantitativamente alterati nei soggetti over 65.
“Nell’anziano la risposta immunitaria è più bassa – sottolinea Salvatore Pacifico, principal investigator del progetto -, ma può essere allenata tramite il vaccino e con le dosi di richiamo. È importante però capire che il vaccino non è uno scudo universale e il vaccinato non è esente dall’infezione e dalla patologia che ne consegue. Deve comunque considerarsi e agire come un soggetto a rischio, prestando attenzione.”
I risultati di questo studio dell’Università di Ferrara contribuiscono a spiegare, per i soggetti anziani, sia le cause della maggior suscettibilità di fronte alle forme gravi di Covid-19, sia la più rapida perdita di immunità post vaccinazione. Il richiamo vaccinale ravvicinato si conferma come preziosa e fondamentale risorsa contro il virus, unitamente alle altre modalità di prevenzione quali uso della mascherina, distanziamento sociale e igiene frequente delle mani.
I risultati ottenuti saranno la base per un nuovo progetto di ricerca dell’Università di Ferrara che, coordinato dal Professor Riccardo Gavioli, approfondirà la conoscenza delle risposte immunitarie indotte nelle diverse fasce di età dalla vaccinazione Pfizer e Astrazeneca.