In Europa la maggior parte dei Paesi ricorre ai combustibili fossili per produrre energia. Secondo i dati dell’Agenzia europea dell’ambiente (European Environment Agency, EEA), circa il 77% del fabbisogno energetico del cittadino europeo medio è soddisfatto da petrolio, gas e carbone. A questi si aggiungono il 14% proveniente dall’energia nucleare e il restante 9% da rinnovabili, le quali però sono in rapida crescita.
Queste percentuali comprendono le fonti domestiche, industriali e i trasporti (questi ultimi necessitano attualmente della maggiore quantità di energia). I consumi variano molto da un Paese all’altro e così le relative emissioni di CO2, soprattutto in base alla diffusione delle energie rinnovabili e del nucleare.
Per quanto riguarda quest’ultimo in particolare, secondo i dati Eurostat nel 2020 sono tredici i Paesi europei in possesso di reattori nucleari attivi: Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Germania, Spagna, Francia, Ungheria, Olanda, Romania, Slovenia, Slovacchia, Finlandia e Svezia.
La produzione lorda è stata di 683.512 gigawattora (GWh). Il principale produttore è stata la Francia (51,8% del totale), seguita da Germania (9,4%), Spagna (8,5%) e Svezia (7,2%). Da soli, questi quattro Stati hanno prodotto il 76,9% di tutta l’elettricità proveniente dal nucleare nell’Unione europea.
Molta energia con poco materiale: perché il nucleare è vantaggioso
“Si tratta di un tema delicato – afferma ad Agenda17 Fabio Mantovani, docente di Fisica e membro del Laboratory for Nuclear Technologies presso l’Università di Ferrara – e soprattutto molto complesso. Perché ancora oggi si parla tanto di nucleare? Perché, da un punto di vista strettamente tecnico, la sua più grande caratteristica positiva è che da una quantità relativamente piccola di materiale si riesce a estrarre una quantità incredibilmente grande di energia.
Se partiamo dal presupposto che avremo sempre maggiore necessità di energia, è un dato di fatto che il nucleare ne sia una sorgente formidabile. Non ha rivali in termini di capacità di produzione rispetto alla quantità di materiale utilizzato.”
Nell’Unione europea la produzione di energia nucleare è in calo. Dopo un aumento del 26,9% tra il 1990 e il 2004, la produzione si è stabilizzata per circa due anni. A partire dal 2006, però, è significativamente diminuita (-25,2%) soprattutto a causa di una forte riduzione della produzione in Germania (-61,5%), seguita, in misura minore, da Svezia, Belgio, Francia, Bulgaria, Slovacchia e Spagna. La Lituania ha invece definitivamente chiuso i suoi impianti nel 2009.
Sei Paesi invece sono andati in controtendenza, aumentando dal 2006 la loro produzione: Romania (+103,6%), Ungheria (+19,3%), Paesi Bassi (+17,8%), Repubblica Ceca (+15,3%), Slovenia (+14,5%) e Finlandia (+1,7%).
“Le grandi torri cui subito pensiamo quando si parla di nucleare – afferma Mantovani – sono torri di raffreddamento e quello che vediamo uscire è vapore acqueo. La parte centrale del reattore è invece il nocciolo, dove avviene la fissione, ed è circondato da una spessa schermatura di cemento.
Ogni reattore fornisce energia elettrica a circa un milione di persone. Oltretutto, quando il materiale è esausto il volume di scarto prodotto – che deve essere adeguatamente stoccato – non è eccessivo, se paragonato ad esempio alla quantità di rifiuti urbani prodotta quotidianamente.”
Francia e Germania: due scelte opposte, ma che vanno contestualizzate
A giugno 2021 la Commissione europea ha adottato il Regolamento 2021/2139, che, entrato in vigore il 1 gennaio 2022, determina gli standard secondo i quali un’attività economica può essere considerata ‘virtuosa’, perché contribuisce alla mitigazione dei cambiamenti climatici, e non arreca danni significativi ad altri obiettivi ambientali.
Già nel 2020 la Commissione aveva avviato un lavoro per valutare se inserire l’energia nucleare nella tassonomia europea delle attività sostenibili. Dopo le consultazioni per i settori del gas e del nucleare, è recentemente giunta alla conclusione che “il gas naturale e il nucleare trovino posto come fonti di energia che facilitano la transizione verso un futuro basato prevalentemente sulle rinnovabili. La loro classificazione nella tassonomia sarebbe subordinata a condizioni chiare e rigorose.”
Al momento, l’atto è stato trasmesso a Parlamento e Consiglio, che hanno quattro mesi di tempo per controllare il testo e sollevare eventuali obiezioni.
A sostenere con maggiore forza l’inserimento del nucleare nella tassonomia verde sono Francia, Repubblica Ceca e Finlandia, mentre tra i Paesi che si muovono in direzione opposta c’è la Germania, che a dicembre ha spento i reattori di tre delle sue centrali attive e prevede di spegnere i rimanenti entro il 2022.
“Prendiamo – afferma Mantovani – l’esempio francese. La Francia oggi ha poco meno di sessanta reattori: se volessimo produrre la stessa potenza di energia elettrica con un impianto solare termodinamico avremmo bisogno di una superficie pari a circa 25mila campi di calcio.
Da queste centrali tecnicamente non esce CO2, ma solo vapore acqueo, come conseguenza del raffreddamento degli impianti. Tuttavia, per arrivare a questa produzione carbon free non bastano le sole centrali, ma dobbiamo considerare l’intera filiera che c’è dietro.”
L’energia nucleare è infatti ricavata dall’uranio, estratto dalle rocce. Si tratta di una risorsa distribuita in tutti i continenti, un metallo che può essere immagazzinato senza limiti di tempo. Il 44% si trova nei Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Organization for Economic Co-operation and Development, OECD), il 22% in Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa (BRICS) e il 34% nel resto del Mondo.
“Per estrarre l’uranio – prosegue Mantovani – e portarlo alle centrali ci sono costi ambientali innegabili. Un giacimento di estrazione consuma petrolio, a partire dai grandi macchinari utilizzati nelle miniere fino al successivo trasporto dell’uranio. Ad esempio, se il giacimento si trova in Africa, il materiale estratto deve essere portato fino alla costa, poi essere spedito via mare in nave e arrivare nelle centrali di produzione.
Quando parliamo di energia pulita, dobbiamo quindi tener conto di queste emissioni? Qui entra chiaramente in gioco un discorso economico e politico. Tecnicamente il Paese che produce energia lo fa in modo pulito. Dall’altro lato, è altrettanto vero che, per far funzionare le centrali, non possiamo prescindere da questa filiera, che produce CO2.”
La Francia punta sul nucleare perché ha investito su tutto l’indotto
In natura, l’uranio è costituito da due isotopi: l’uranio-235 (U-235, fissile) allo 0,7% e l’uranio 238 (U-238, non fissile) al 99,3%. Per ottenere combustibile nucleare adatto per i reattori ad acqua pressurizzata (PWR, la maggioranza in Europa), è necessario aumentare la concentrazione di U-235, dallo 0,7% al 3-5%. In tutta Europa, infatti, solo due reattori in Romania utilizzano uranio naturale.
“L’uranio che si estrae dalla roccia – afferma Mantovani – non è quello che utilizziamo nella centrale, ma va arricchito. In Francia, maggior produttore di energia nucleare, questo trattamento avviene prevalentemente nel sito del Tricastin, nel Sud del Paese. Qui ci sono quattro reattori nucleari, due dei quali sono destinati alla produzione di energia per l’arricchimento dell’uranio e il processamento delle scorie. In altri termini, solo per questi processi abbiamo bisogno dell’equivalente di energia elettrica per due milioni di persone.
Quando si parla di nucleare, quindi, bisogna tener conto di un punto che solitamente si fatica a mettere a fuoco, ma che è indispensabile: non bastano le centrali, ma è necessario considerare tutta la filiera precedente e successiva alla produzione di energia.
Quindi, perché la Francia ha interesse a mantenere vivo il discorso nucleare e farlo diventare green? Perché investe sul nucleare da decine di anni in termini di infrastrutture sia sul territorio nazionale sia nelle sue ex colonie, curando l’intera filiera dall’estrazione al riprocessamento del combustibile nucleare. È così ben attrezzata che esporta materiali, impianti e competenze in tutto il Mondo.
Penso quindi sia comprensibile che voglia mantenere questo indotto, che coinvolge migliaia di persone ed è costato molti sforzi. Diverso invece è il discorso della Germania: per capire la sua decisione di spegnere i reattori, occorre ampliare ulteriormente lo sguardo e considerare in particolare un altro aspetto dell’industria nucleare: l’invecchiamento degli impianti.”
A molti Paesi invece non conviene mantenere reattori datati
Come per tutti gli impianti complessi, anche per i reattori nucleari esiste un “tempo di vita” previsto in fase di progetto: a seconda delle tecnologie impiegate, può variare dai venticinque ai trentacinque anni. Dei poco più di 440 reattori attivi nel Mondo, quasi la metà ha superato queste soglie.
I più recenti infatti si trovano prevalentemente in Cina, che sta puntando molto sul nucleare. Per gli altri, più passa il tempo e più si rende necessaria maggiore manutenzione, quindi maggiori costi. Per questo alcuni Paesi stanno valutando cosa fare in termini di rapporto tra costi e benefici e la Germania ne è un esempio.
“I suoi reattori – continua Mantovani – stanno invecchiando, oltre al fatto che la Germania ha investito meno nell’indotto del nucleare. Si potrebbe dire che Francia e Germania hanno macchine un po’ vecchie: la Francia ha in casa il meccanico per mantenerle, mentre per la Germania i costi diventano sempre più elevati. Ecco quindi che la Germania coglie le opportunità della cosiddetta green economy, decidendo di investire sulle rinnovabili e smantellare reattori che saranno sempre più costosi.
Se consideriamo dunque tutti gli aspetti, al di là degli slogan, possiamo capire la posizione di entrambi i Paesi.”
Energia nucleare da zero: alti costi e tempi lunghi per i finanziamenti
Secondo il World Nuclear Performance report 2021, a fine 2020 i reattori nucleari operanti nel Mondo erano 441. Negli ultimi anni le centrali sono rimaste pressoché invariate: tra il 2018 e il 2020 sono stati infatti chiusi definitivamente ventisei reattori, a fronte di venti nuovi reattori avviati.
Nel 2020, complice la minor richiesta energetica dovuta al Covid-19, la generazione di energia nucleare è calata in Africa, Nord America e nell’Europa occidentale e centrale, mentre è aumentata in Asia, anche se in misura minore rispetto agli anni precedenti. Le nuove costruzioni invece si collocano in Cina e Turchia.
“La Cina – conclude Mantovani – ha un progetto energetico completo per il nucleare, a partire da esplorazioni minerarie sia nel territorio nazionale sia in altri continenti. Può permetterselo perché sta investendo su tutta la catena, che comprende estrazione, trasferimento, arricchimento, costruzione e gestione dell’impianto e smaltimento delle scorie.
Se si vuole costruire da zero, infatti, bisogna tenere in considerazione tutta la complessità del processo, prima di tutto i finanziamenti. Consideriamo che, tra i tempi di costruzione e l’avvio della produzione, un grosso investitore che decide di finanziare un impianto (che costa poco meno di dieci miliardi di euro) deve aspettare almeno quindici anni per veder rientrare il suo investimento. Con il petrolio, l’investimento è decisamente più contenuto e i tempi di guadagno spesso si calcolano in mesi.
Bisogna quindi valutare la posizione di chi è chiamato a investire: le scelte energetiche, dal punto di vista di chi le finanzia, vanno viste rispetto ai tempi di ritorno. Il petrolio oggi è ancora predominante proprio perché ha ritorni formidabili, oltre al fatto che l’industria petrolifera è ormai consolidata e ben avviata.”