Una via per capire le crescenti disuguaglianze evidenziate dal World Inequality Report 2022 è il gap tra la ricchezza netta dei Governi e quella del settore privato. Negli ultimi quarant’anni i Paesi sono diventati più ricchi, ma i loro Governi sono diventati significativamente più poveri. La quasi totalità della ricchezza è infatti in mano privata, come dimostra il fatto che la quota detenuta dagli attori pubblici nei Paesi più ricchi è vicina allo zero o negativa.
Questo trend è stato accentuato dal Covid-19, con molti Governi che hanno preso in prestito l’equivalente del 10-20% del Prodotto interno lordo soprattutto dal settore privato. Questo ha importanti implicazioni per la capacità degli Stati di affrontare le disuguaglianze e le sfide del XXI secolo, in primis il cambiamento climatico.
“Maggiore è il debito pubblico – afferma Sandrine Labory, docente di Analisi dei settori produttivi presso l’Università di Ferrara – minore è la capacità dei Governi di finanziare politiche di investimento e politiche sociali che aiutano le fasce più vulnerabili della popolazione.
Per cambiare la situazione è indispensabile una maggiore tassazione delle fasce più ricche, che negli ultimi anni hanno invece visto le loro tasse diminuire, e queste risorse andrebbero poi redistribuite alle fasce meno abbienti. Inoltre ci sono misure come la promozione dei cosiddetti ‘good jobs’, quindi garantire un reddito decente a tutti, la promozione di contratti di lavoro meno precari, formazione e istruzione modernizzate per dare alle persone le conoscenze e competenze adeguate, e lo sviluppo dei servizi pubblici per garantire accesso universale all’istruzione e alla salute di qualità.”
Negli ultimi decenni, infatti, i multimilionari mondiali hanno detenuto una quota sproporzionata della crescita della ricchezza globale: l’1% più ricco ha preso il 38% della ricchezza aggiuntiva accumulata dalla metà degli anni Novanta, mentre il 50% più povero solo il 2%.
Ciò deriva da una disuguaglianza nei tassi di crescita dei diversi gruppi sociali. Dal 1995, la ricchezza dei più ricchi è cresciuta dal 6 al 9% l’anno, mentre la ricchezza media del 3.2%. Inoltre, la quota di ricchezza globale posseduta dai miliardari è cresciuta da 1% a oltre 3% e tale crescita è stata esacerbata dalla pandemia.
Con una tassazione progressiva anche modesta sulla ricchezza dei multimilionari (62,2 milioni di persone nel 2021 possedevano più di un milione di dollari, per un totale di 174 trilioni di dollari), le entrate aggiuntive per i Governi sarebbero comunque rilevanti e potrebbero essere reinvestite nell’educazione, nei sistemi sanitari e nella transizione ecologica.
Affrontare le sfide del XXI secolo non è possibile senza una significativa redistribuzione della ricchezza e del reddito e la crescita dei moderni welfare state, che ha portato a enormi progressi nella salute, nell’educazione e in maggiori opportunità per tutti, è legata alla crescita dei tassi di tassazione progressiva.
Giustizia climatica: i più ricchi inquinano di più
Le disuguaglianze di ricchezza sono infine strettamente connesse a rilevanti differenze nel contributo al cambiamento climatico. In media, gli esseri umani emettono 6,6 tonnellate di anidride carbonica pro capite l’anno, con importanti disuguaglianze a livello globale.
Il 10% più ricco è infatti responsabile di circa il 50% delle emissioni, mentre il 50% più povero ne produce il 12%. Inoltre, se consideriamo gli obiettivi climatici stabiliti per il 2030 su base pro capite, anche la metà più povera della popolazione nei Paesi ricchi li ha già raggiunti, o quasi.
Le disuguaglianze nelle emissioni suggeriscono che le politiche climatiche, come le tasse sul carbone, dovrebbero riguardare soprattutto gli inquinatori ricchi, invece spesso impattano sproporzionatamente sui gruppi a basso e medio reddito.
“I problemi della transizione ecologica e della giustizia climatica – afferma Labory – sono multidimensionali e complessi, non si possono risolvere con un’unica misura come una tassa globale sulle emissioni, ma con molteplici interventi che vanno pensati per garantirne la coerenza e l’effetto positivo.
Visto che il problema ambientale è globale, sarebbe necessario non solo un impegno forte di tutti i Governi, ma anche una loro stretta collaborazione per garantire effetti sinergici delle misure prese a livello nazionale. Sul piano climatico ci stanno provando dal 1992, anno del primo Summit della Terra, fino alla recente Conferenza delle parti (COP26) di Glasgow, ma si può dire che quella collaborazione resti ancora molto difficile.”
“Rispetto al tema della giustizia climatica – aggiunge Federico Frattini, docente di Storia economica presso l’Università di Ferrara – ci sono diverse questioni. Quando si parla di ambiente, non esistono confini tra mercati nazionali e tra istituzioni e non dovrebbero esistere iniziative nazionali indipendenti. Nella realtà, però, non è così: tutti inquinano, ma a rischiarne gli effetti maggiori sono Paesi e realtà molto periferiche nello scenario economico globale.
Come per la povertà, anche l’inquinamento è una responsabilità sociale e politica. Purtroppo è un tema marginale nella definizione degli equilibri climatici globali, perché si ritiene più urgente coinvolgere tutta una serie di grandi inquinatori che, indipendentemente dal loro livello di sviluppo, contribuiscono al cambiamento climatico.
E in questi termini secondo me una tassa globale potrebbe non essere sufficiente, perché dovrebbe servire a far sostenere a qualcuno un costo il cui ricavato va trasferito a qualcun altro. Tuttavia, un primo problema è capire come definire le imposizioni in quanto tali, a livello di aliquote, e non è per niente facile. Siamo in lotta contro il tempo: i destinatari di queste risorse potrebbero non avere un futuro in cui utilizzarle.
Ma la cosa che mi convince meno è l’idea di fare tabula rasa dello storico perché non è nella natura umana, nella politica, e tanto meno nell’economia. Trovare un accordo dimenticandosi del passato o tralasciandolo lo vedo molto difficile.”
Nel Mondo ci sono esempi di politiche climatiche efficaci anche sul piano delle disuguaglianze. Nella Colombia britannica, in Canada, la carbon tax è accompagnata da un pacchetto di trasferimenti verso le famiglie a basso e medio reddito, rendendola quindi sostenibile, mentre in Svezia gli investimenti pubblici in infrastrutture a basse emissioni hanno permesso ai gruppi svantaggiati di accedere a fonti energetiche pulite. In questo modo, quando è stata introdotta una tassa sul carbonio, questi gruppi hanno potuto scegliere tra fonti fossili o più ecologiche.
“A livello globale la cosa potrà forse essere sbloccata – conclude Frattini – nel momento in cui qualcuno si assume un grado di responsabilità maggiore di quella che gli spetta, per vedere cosa ne segue. Oggi può candidarsi a farlo l’Unione europea, anche se su alcuni temi un simile passo non ha il coraggio né le spalle politiche per poterlo fare, perché deve mettere d’accordo ventisette Paesi molto diversi tra loro.
Infine dobbiamo anche chiederci se la società globale sia disposta a uno stile di vita corrispondente a quel più grado e mezzo che ci siamo prefissati. Fortunatamente l’evoluzione tecnologica è stata tanta, ma limitare l’effetto in termini di criticità climatiche significa anche adeguare le azioni di tutti a degli obiettivi comuni.”