Finalizzato a delineare un quadro generale delle disuguaglianze a livello globale, l’ultima edizione del World Inequality Report 2022 affronta anche l’effetto del Covid-19 su redditi e ricchezza e la correlazione tra il possesso della ricchezza e l’impatto sul cambiamento climatico. Il quadro che ne emerge è che, ancora una volta, le disuguaglianze sono una scelta politica, e non un fatto inevitabile.
A parità di potere d’acquisto, nel 2021 un adulto medio ha guadagnato 16.700 euro (23.380 dollari) e possiede circa 72.900 euro (102.600 dollari). Queste medie nascondono però profonde disparità sia tra i Paesi sia al loro interno.
Il 10% più ricco della popolazione detiene infatti il 52% del reddito globale, mentre alla metà più povera rimane l’8,5%. Si va cioè da un guadagno medio annuo di 87.200 euro (122.100 dollari) a uno di 2.800 euro (3.920 dollari). Le disuguaglianze di ricchezza sono anche più accentuate, con la metà più povera che possiede il 2% della ricchezza totale contro il 76% del 10% più ricco.
Le differenze sono anche geografiche. La regione più equa è l’Europa, mentre la più iniqua è il Medio Oriente e Nord Africa (Mena): il 10% più ricco possiede una quota di reddito attorno al 36% nel primo caso mentre raggiunge il 58% nel secondo.
Inoltre, tra i Paesi ad alto reddito, alcuni sono molto diseguali al proprio interno come gli Stati Uniti, altri molto meno come la Svezia. Lo stesso vale per i Paesi più poveri: disuguaglianze estreme emergono in Brasile e India, mentre calano in Malaysia e Uruguay.
“Le disuguaglianze – afferma ad Agenda17 Federico Frattini, docente di Storia economica presso l’Università di Ferrara – sono una responsabilità sociale, cioè sia collettiva che individuale. E lo stesso vale per l’ambiente. Non si è mai responsabili da soli, dalle disuguaglianze all’inquinamento.
Mi piace infatti pensare che rimanga un margine all’azione individuale. Significa che l’azione collettiva e la politica possono fare molto, ma nulla vieta, banalmente, a un super ricco di donare il 10% del suo reddito annuale ai poveri.
Il punto però è che le disuguaglianze fanno parte della realtà perché le differenze sono parte della realtà. Il problema sorge quando queste disuguaglianze si accumulano e assumono connotati che vanno oltre la disuguaglianza in quanto tale.
Se la persona povera sta bene e ha quello che ritiene sufficiente a soddisfare i propri bisogni, le definizioni stesse di ‘ricco’ e ‘povero’ sono semplicemente relative a differenze di reddito. Se invece quello stesso povero non riesce a soddisfare i bisogni essenziali e non si vede riconosciuti dei diritti, è lì che la questione diventa complessa.”
Dagli anni Ottanta le disuguaglianze sono in continua crescita
Dal 1980 le disuguaglianze interne sono in aumento ovunque. La crescita non è stata uniforme, con incrementi notevoli in Paesi come Stati uniti e Russia, minori in Europa. Questo dimostra che tali disuguaglianze sono frutto di scelte esclusivamente politiche e le cause principali sono da riscontrarsi nei programmi di deregolamentazione e liberalizzazione.
“Dagli anni Ottanta – afferma Sandrine Labory, docente di Analisi dei settori produttivi presso l’Università di Ferrara – inizia un periodo di politiche neoliberiste la cui idea è che lo Stato deve intervenire il meno possibile nell’economia perché i mercati si regolano da soli. I Paesi dove questo approccio è più forte sono gli Stati uniti di Ronald Reagan e il Regno unito di Margareth Thatcher.
Molte aziende pubbliche sono privatizzate e settori tradizionalmente regolamentati, come telecomunicazioni, ferrovie, elettricità e gas, sono aperti alla concorrenza. È promossa una maggiore ‘flessibilità’ del mercato del lavoro, con l’idea che quest’ultimo si aggiusta meglio alle crisi, a beneficio di tutti, se le aziende possono assumere e licenziare facilmente.
Così i sindacati vengono smantellati e sono introdotti contratti di lavoro più flessibili. Il problema è che dagli anni Ottanta i profitti delle imprese sono generalmente aumentati molto, mentre i salari in media hanno continuato a diminuire. Quindi le aziende hanno condiviso meno i frutti dei loro guadagni con i lavoratori, a beneficio degli azionisti.
La conseguenza è un aumento delle disuguaglianze, con i ricchi che vedono la loro ricchezza aumentare costantemente mentre si impoveriscono le fasce di reddito medio-basse. Anche Paesi di tradizione meno liberale, come la Francia e l’Italia, hanno adottato queste politiche, generando lo stesso aumento delle disuguaglianze.”
Nel nostro Paese, secondo gli ultimi dati disponibili, già prima della pandemia il 10% più ricco della popolazione possedeva oltre sei volte la ricchezza della metà più povera. Allo scoppio del Covid-19, poco più del 40% della popolazione era in condizione di povertà finanziaria e, a fine estate 2020, il 30% delle famiglie ha dichiarato di non possedere i mezzi necessari per sopravvivere per un mese.
Nel frattempo, dall’inizio della pandemia, la ricchezza di trentasei miliardari è aumentata di oltre 45,7 milioni di euro. Si tratta di 7.500 euro per ognuno dei sei milioni più poveri.
“Non sono d’accordo – afferma Frattini – sull’esistenza di un nesso tra disuguaglianze e libero mercato. La liberalizzazione, che rende possibile la concorrenza nel libero mercato, è una parola chiave di programmi politici di un certo orientamento, che storicamente ha connotato la politica conservatrice in tutto il Mondo ma che è anche uno dei pilastri dell’idea di mercato europea.
Di fatto funziona nel momento in cui le condizioni economiche sono mature perché possa esistere la concorrenza. Bisogna cioè tener conto di come è fatta un’industria o un settore per vedere le liberalizzazioni produrre effetti positivi, o quantomeno maggiori di quelli negativi, e quindi migliorare la vita delle persone.
Quando accade, infatti, l’impatto sul cittadino è positivo perché offre prodotti e servizi a prezzi più vantaggiosi. C’è sicuramente qualcuno che guadagna di più, ma fa parte del sistema. Sulla carta nulla dice che la liberalizzazione in quanto tale aumenta le disuguaglianze. Il tema piuttosto è l’inclusione sociale: la disuguaglianza è un problema nel momento in cui emargina, cioè non permette ad alcuni l’accesso a determinati beni e servizi.”
La società industriale non riesce a distribuire equamente la ricchezza che produce
Le disuguaglianze esistono perché il sistema economico che genera ricchezza non riesce a distribuirla in modo uniforme. A livello globale sono oggi vicine ai livelli del XX secolo, al culmine dell’imperialismo occidentale.
Confrontando i diversi Paesi, infatti, le disuguaglianze sono notevolmente aumentate tra il 1820 e il 1950, durante il periodo degli imperi coloniali, poi la crescita si è mantenuta a ritmo più lento fino al 1980, quando ha iniziato a diminuire grazie ai tassi di crescita di Paesi come India, Indonesia o Vietnam, rispetto ai Paesi ricchi.
Tuttavia, in termini assoluti le differenze rimangono elevate: nonostante la crescita dei Paesi emergenti, infatti, nel 2020 i livelli si mantengono simili a quelli del 1900. Nel frattempo, inoltre, negli ultimi decenni è ripreso anche il trend di crescita delle disuguaglianze interne.
“Non c’è nessuna teoria economica – secondo Frattini – per cui il mercato debba essere equo. Raggiungere l’equità è un compito della società, delle sue regole e della politica. Il mercato, se esistono le condizioni per cui possa funzionare bene, è il sistema più efficiente di allocare risorse.
Ci sono però diverse condizioni per cui non realizza questa efficienza. Un esempio sono le cosiddette esternalità, effetti indotti, non volontari, che possono essere positivi o negativi. Pensiamo all’ambiente: il mercato non è efficiente nel momento in cui non tiene conto di esternalità come lo sversamento di rifiuti.
Da un punto di vista tecnico, si agisce attraverso il meccanismo dei prezzi: se non riesci a prezzare qualcosa, non esiste un mercato per essa. In altri termini, se non ha un costo, l’inquinamento diventa un’esternalità, non viene gestito dal mercato e quindi diventa un problema.
Per quanto riguarda le disuguaglianze, il mercato fallisce tutte le volte in cui si parla non di profitti ma di rendite. Potremmo dire che il profitto, quello del capitalismo industriale dell’imprenditore, è una remunerazione per quello che si fa, mentre la rendita è una remunerazione di ciò che si è.
Pensiamo all’energia: un Paese non fa combustibili, ma si trova seduto su un certo numero di pozzi di petrolio. In questo caso si generano dei meccanismi per cui, per quanto il mercato sia efficiente, si crea il rischio concreto che si accumulino le disuguaglianze perché la ricchezza dipende da una situazione pregressa.”
La povertà è una responsabilità sociale
La persistenza di alti livelli di disuguaglianza globale tra il 1910 e il 2020 è legata al ruolo giocato da fattori istituzionali e politici e dai conflitti tra poteri statali in competizione e le classi sociali. Una via d’uscita è la redistribuzione della ricchezza dai gruppi economici più ricchi ai più poveri, con investimenti di capitale fisico (come infrastrutture e macchinari) e umano (istruzione, competenze e salute) a beneficio di questi ultimi.
“Una delle implicazioni sociali della Rivoluzione industriale – secondo Frattini – è che la povertà, che nella società agricola era una condizione strutturale, è diventata una responsabilità sociale. Questo perché il sistema capitalistico produce ricchezza potenzialmente per tutti, ma distribuirla è una responsabilità fatta di scelte individuali, politiche e sociali.
Siamo entrati in un modello economico e sociale di cui le disuguaglianze sono parte integrante: il punto è agire affinché non diventino problematiche né in senso dinamico (assenza di mobilità sociale tra le generazioni) né in senso statico, quindi far sì che non assumano qualità dannose per l’individuo e la società.” (1.Continua)