Era il settembre dell’anno scorso, quando Milva Naguib nel podcast dedicato all’estrazione di gas e al sequestro di CO2 in Adriatico, si chiedeva “Stoccare la CO2 in Adriatico? Idrogeno ‘blu’ per la decarbonizzazione?”
Da allora il problema dello stoccaggio dell’anidride carbonica, nonostante i costi alti e la scarsa efficienza degli impianti già esistenti, non è stato risolto, e l’utilizzo del gas – al pari del nucleare – è al centro di un acceso dibattito anche a livello di Unione europea, che è impegnata nel definire la “tassonomia” del mix energetico che dovrà guidarci verso la decarbonizzazione. Il problema è, appunto, che in questo mix potrebbero rientrarci proprio il metano e l’atomo.
Su questi temi pubblichiamo il commento che ci ha inviato Pippo Tadolini, del Coordinamento ravennate “Per il Clima – Fuori dal Fossile”.
La campagna Per il clima -Fuori dal fossile, che sta diventando un punto di riferimento della mobilitazione, anche per le storiche e collaudate associazioni ambientaliste, ha chiesto al Governo di assumere una posizione chiara sulla “tassonomia”, e avviare un discorso deciso sullo sviluppo delle rinnovabili. A partire da un problema molto semplice: qual è il reale fabbisogno di gas?
Il metano, che si affermò proprio come fonte energetica di transizione, accettata anche dal mondo ambientalista quando si trattava di cominciare a ridurre la dipendenza dal petrolio e l’impatto inquinante del carbone, nonché contrastare l’ondata di entusiasmo filonucleare, è una delle basi su cui si sostiene il mix energetico dell’Italia, a cui contribuisce con una quota quasi del 43%, di poco inferiore alla quota delle rinnovabili (che comprendono l’idroelettrico, il solare, l’eolico e il geotermico).
Secondo i dati del Gestore servizi energetici (Gse), relativi al pre-consuntivo dell’anno 2020, le rinnovabili costituiscono circa il 45% del mix energetico nazionale utilizzato per la produzione di energia elettrica immessa nel sistema elettrico; il carbone è ancora ad oltre il 6%, il gas naturale arriva quasi al 43%.
Ora, da uno studio prodotto dagli stessi operatori del settore (Assorisorse), risulta che in Italia esistono 92 miliardi di metri cubi di gas. Il Sole 24 ore (che riprende lo studio di Assorisorse) si sbilancia ad affermare che “in Italia servirebbe un paio di miliardi per estrarre circa dieci miliardi di metri cubi l’anno per dieci anni”. Nella nostra Regione ci sono già trentuno concessioni esistenti; nel periodo 2021-2024 “sono stati programmati investimenti per 254 milioni di euro a fronte di una produzione cumulata di 3,7 miliardi di metri cubi standard (msc)”.
Sappiamo bene che altri produttori di stazza particolarmente importante, come la Russia – che con il gasdotto Nord Stream 1 e 2 attraversa il Mar Baltico e, contenziosi geopolitici permettendolo, trasporterà in Europa occidentale 110 miliardi di metri cubi gas all’anno – vantano volumi di produzione e trasporto ben maggiori.
Ma in ogni caso, attualmente le infrastrutture del gas sul territorio nazionale sono costituite da una rete di 264mila chilometri che raggiunge il 91% dei Comuni. Così come abbiamo ben chiaro che il settore energetico pesa molto (circa per tre quarti) sulle emissioni totali, riconducibili all’utilizzo di fonti fossili per la generazione elettrica e la mobilità.
Nuove trivellazioni portano più inquinamento e rallentano il passaggio alle rinnovabili
Pensare quindi di passare dagli attuali quattro miliardi di metri cubi di produzione nazionale di gas ad almeno otto, come Cingolani vorrebbe, e quindi trivellare molto di più soprattutto nei giacimenti in Basilicata e in Adriatico, significherebbe un impatto ambientale altissimo per il territorio italiano, e una pressione sul fronte delle emissioni che rischierebbe di vanificare, forse per sempre, gli impegni presi (già abbastanza timidi) e quelli auspicabili.
Si tenga sempre presente che il metano, la cui combustione è si moderatamente meno dannosa di quella di olio combustibile e carbone, se liberato allo stato puro in atmosfera, ha un potere climalterante decine di volte superiore alla stessa anidride carbonica. Alcuni studi parlano di trentasei volte di più, altri arrivano a stimare anche ottanta volte. Nessun impianto metanifero al Mondo, nei vari punti della sua “filiera” è mai riuscito ad azzerare le fughe di metano libero in atmosfera.
È chiaro che nessuno nega la necessità della gradualità, ma dovrebbe essere lapalissiano che non si può in nome della gradualità, percorrere addirittura in senso opposto la strada verso il futuro, e lasciare sostanzialmente al palo l’innovazione più sostenibile.
Anche una parte del mondo industriale che si dichiara ambientalista si è arruolata nel fronte metanifero. Non molto tempo fa al premier Mario Draghi era stata inviata da parte della fondazione Ottimisti & Razionali, guidata da Claudio Velardi, e Italia più Verde, guidata dall’ex presidente di Legambiente Chicco Testa, una lettera aperta, che lo invitava a sostenere in Europa il nucleare e il gas, nonché la cattura e lo stoccaggio di carbonio, il famoso Carbon Capture and Storage (CSS) che riguarda strettamente Ravenna, la sua costa e il suo territorio.
Gli impianti di stoccaggio di CO2 sono costosissimi e poco efficienti
Si tratta sicuramente della tecnologia maggiormente discussa nel campo degli investimenti energetici, dal momento che gli impianti di questo tipo presenti nel Mondo non hanno dato i frutti sperati. In Texas l’impianto di Petra Nova è stato avviato a dismissione, in Australia quello della Chevron sta producendo risultati pari al trenta per cento di quanto atteso.
E più in genere, per realizzazioni di questo tipo, l’unica cosa certa che si può dire fino ad ora, è che sono costosissimi e che le spese per realizzarli potrebbero con profitto essere dirottate sul fronte delle rinnovabili, non solo nella costruzione di centrali (di diverse dimensioni), ma anche e forse soprattutto nella promozione a tutta forza della produzione diffusa, incoraggiando in ogni modo le scelte individuali, e ancor più varando un piano di costruzione delle comunità energetiche, il vero salto – se ben congegnate – verso l’agognata autonomia, almeno per i consumi nella vita quotidiana delle persone.
Adesso, nella bozza europea dei Piani di interesse comune (Project of Common Interest, PCI) compaiono trenta grandi impianti a gas per un valore complessivo di 13 miliardi di euro, e – in Italia – è Snam la maggiore beneficiaria dei nuovi progetti europei, fra i quali si torna a fare menzione, fra diversi altri, della Linea adriatica, le cui condutture dovranno attraversare il territorio ravennate per poi dirigersi verso l’Appennino Emiliano.
Diverse posizioni delle amministrazioni locali per la tutela del territorio
D’altronde i poteri locali non stanno a guardare, e anziché preoccuparsi di tutelare territorio, ambiente e salute, fanno a gara per non essere da meno delle istituzioni centrali o sovranazionali. La Conferenza delle Regioni, in dicembre ha emesso sic et simpliciter parere favorevole ai permessi di ricerca dei giacimenti di gas.
In tale documento si dice che saranno consentite sole le attività relative al gas e non al petrolio, senza dire (ma forse non lo sanno), intanto, che il gas è comunque una fonte fossile al pari del petrolio, con tutta la sua azione dannosa per il clima, e poi che tale “limitazione” è in realtà priva di senso. Sia perché la legge stabilisce che l’intesa sia rilasciata con riguardo sia alle ricerche di gas sia a quelle del petrolio, sia perché non è possibile autorizzare solo la ricerca del gas e non anche quella del petrolio, dal momento che non è possibile sapere con esattezza che cosa ci sia nel sottosuolo o nei fondali marini prima ancora di effettuare la ricerca stessa. Senza contare che si tratta di permessi di ricerca già vigenti, che, al momento della loro adozione, avevano già autorizzato la ricerca dell’uno e dell’altro.
Va raccontato che, quando si parla di riconversione, esempi da seguire in termini di proposte ce ne sono. A Civitavecchia, ad esempio, si è formata da tempo un’importante rete che mette insieme mondo della ricerca, amministrazione locali, sindacati, galassia ambientalista e studentesca, la diocesi, contestando la proposta di costruzione di una grande centrale turbogas, per puntare invece sulle rinnovabili.
Mario Agostinelli, presidente dell’associazione “Laudato Sì”, ex ricercatore Enea, già segretario della CGIL lombarda, racconta che al posto di un turbogas “verrebbe rivisto il sostegno alla rete dei pompaggi e, soprattutto, verrebbe realizzato un sistema eolico offshore galleggiante, a trenta km dalla costa con le giuste caratteristiche del fondale marino e della intensità dei venti, per una produzione iniziale di 210 MW, che andrebbe sostenuto – questo sì – anche coi fondi del Pnrr e una parziale partecipazione pubblica. Nascerebbe nella città laziale un vero e proprio hub del Mediterraneo per l’eolico offshore(…), creando opportunità di nuova occupazione e di lavoro di qualità”.
E nonostante tutto si continua a preferire il gas.
Su Il Sole 24 Ore, leggiamo: “Sono sulla corsia di arrivo circa 50 progetti di centrali a gas per quasi 20mila megawatt di potenza. Il Sole 24 Ore su dati di mercato e su documentazione ufficiale è riuscito a censirne 48 in vari gradi di sviluppo, dalla prima richiesta di valutazione fino ai lavori autorizzati e in corso. La potenza complessiva dei 48 progetti che è stato possibile dettagliare al Sole 24 Ore è 18.500 megawatt (…)”.Questo nuovo Klondike, insomma, apre una “corsa al gas” che nei prossimi anni, già da questo 2022, sarà forse uno dei principali terreni dello scontro sociale, e forse – auspicabilmente – anche politico. Perché delinea una di quelle fasi critiche della storia dell’umanità e degli ecosistemi, tali da lasciare un segno permanente per molte e molte generazioni. Se molte e molte ce ne potranno ancora essere.
Grazie riconosco che sia una relazione molto impegnativa anche un po’ difficile da comprendere per i ” non addetti ai lavori”, ciò nonostante, ci esorta ad approfondire per continuare ad essere presenti con la nostra coscienza e partecipazione collettiva e tenacia. Giovanna Suardi