Guerra e pace. Che bilancio possiamo fare della situazione internazionale all’inizio del 2022, nei giorni in cui si sarebbe dovuta tenere la Conferenza mondiale sulla non proliferazione nucleare, rinviata per la pandemia? Sono in grado le istituzioni internazionali di controllare le tensioni internazionali nell’interesse della sicurezza comune? E cosa dobbiamo aspettarci in particolare per l’Europa e per il nostro Paese, stante la tensione che si registra alle frontiere orientali dell’Unione?
Lo abbiamo chiesto a Lucio Caracciolo, nell’ambito dell’approfondimento che Agenda17 dedica ai temi dell’Obiettivo 16 – Pace, giustizia e istituzioni forti. Caracciolo è fondatore e direttore di Limes, la rivista italiana di geopolitica e dirige la Scuola di Limes, una “Scuola di geopolitica e di governo per formare la classe dirigente di oggi e di domani”.
Quale è il bilancio della situazione della pace nel Mondo?
Se mi avesse fatto questa domanda qualche decennio fa, la risposta sarebbe stata relativamente positiva. Oggi di guerre nel Pianeta se ne contano almeno una trentina che rappresentano un numero relativamente basso.
Nel contesto attuale, dove la discontinuità tra pace e guerra è sempre meno visibile, e sempre più discussa, quello che conta non è tanto il parametro della pace o della guerra, che in senso puro è difficile distinguere, ma il parametro dell’instabilità e i conflitti legati all’instabilità.
La grandissima parte dei conflitti in corso non è tra Paesi ma all’interno di alcuni Paesi, nei quali l’instabilità è creata da gruppi di potere che cercano di affermarsi come entità geopolitiche indipendenti, a seguito di sommovimenti sociali ed economici che mirano a costruire dei territori di pertinenza.
In termini generali, i paradigmi che valevano fino al tempo della Guerra Fredda sono saltati, tanto è vero che l’epoca attuale non ha nemmeno una sua definizione. Siamo passati all’età del post-guerra, post-modernità, post-storia. Ma cosa sia questo post risulta arduo da definire e questo è senz’altro indice di instabilità geopolitica.
In particolare per l’Europa, quali sono le situazioni di instabilità?
Oggi in Europa sono in corso guerre a bassa intensità.
La principale è quella in corso in Ucraina nell’area del Donbass dove assistiamo a quella che, tecnicamente, possiamo definire una guerra civile ucraina. I fronti opposti sono rappresentati da gruppi nell’Est dell’Ucraina, che difendono una propria autonomia da Kiev e sono supportati dalla Russia in modo più o meno robusto, e il governo di Kiev a sua volta supportato dall’America e dall’Occidente.
Ci sono poi delle aree di instabilità latente, in particolare i Balcani e l’area dell’ex Jugoslavia, dove tendiamo a dimenticare che per un decennio negli anni Novanta del secolo scorso si è combattuta una guerra violentissima. Anche qui è difficile definire quanto fosse internazionale o civile ma è una guerra che ha fatto decine di migliaia di morti, sconvolgendo per la prima volta dal 1945 il contesto europeo.
E poi ci sono le tensioni all’interno delle singole società esacerbate dagli effetti del virus sugli assetti interni, economici, sociali e istituzionali e dalla paura dei flussi migratori considerati come una minaccia.
I media affermano che il termometro che misura il pericolo di guerra in Europa segnala febbre alta. Quale è la sua opinione?
Il conflitto ai confini orientali dell’Europa è in già in corso, non è una ipotesi e dura ormai da sette anni, dalla fine del 2014, e non mi pare prossimo a spegnersi. La questione è se le potenze esterne interessate a questo conflitto, anzitutto la Russia, poi gli avversari della Russia come i Paesi del Nord-Est della North Atlantic Treaty Organization (NATO) quelli che vanno dalla Polonia alla Romania e che sono la parte più anti-russa dello schieramento atlantico e sono supportati entro certi limiti dagli Stati Uniti, potranno o vorranno incentivare il conflitto.
Per la Russia la posta in gioco è esistenziale. Se l’Ucraina si avvicinasse alla NATO, non necessariamente divenendone membro ma come area di posizionamento avanzato, ospitando strutture militari, basi di un certo livello oppure missili balistici che possono raggiungere in un paio di minuti Mosca, questo verrebbe percepito da Mosca come una minaccia.
Inoltre, più che di un’aggressione abbastanza improbabile da parte della NATO, il timore russo è legato all’instabilità che percepiscono dopo la crisi del 2014 in Ucraina e che potrebbe provocare all’interno della Federazione russa dei sommovimenti, quelli che vengono definiti in gergo “rivoluzioni colorate” che hanno già visto all’opera a loro danno nell’area.
Da non dimenticare poi l’altra minaccia esistenziale dal punto di vista russo rappresentata dall’avanzamento della NATO verso Est avvenuta dopo l’unificazione della Germania e la fine dell’Unione Sovietica dopo il 1990-91.
Per quanto riguarda, invece, gli Stati Uniti, l’impressione è che vogliano creare una pressione permanente nei confronti della Russia senza arrivare a un confronto.
Quale ruolo giocano l’Italia e l’Europa in questo conflitto?
Purtroppo, come sappiamo l’Italia vive da tempo una fase di notevole introversione dal punto di vista della sua presenza internazionale mentre in questa partita l’Europa è tagliata completamente fuori per la mancanza di una politica estera comune. La partita si gioca tra Stati Uniti e Russia e temo che il rischio che la situazione possa sfuggire di mano sia reale.