Il Rapporto 2021 dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis) evidenza che il nostro Paese è ancora lontano dal raggiungimento dell’Obiettivo 6 – acqua pulita e igiene – dell’Agenda 2030 dell’Organizzazione delle nazioni unite (Onu). In particolare rivolge l’attenzione ai due target sui quali l’Italia deve ancora lavorare: l’accesso universale ed equo all’acqua potabile, sicura e alla portata di tutti (Traguardo 6.1) e il miglioramento della qualità dell’acqua attraverso la riduzione dell’inquinamento, delle pratiche di scarico non controllato e del rilascio di sostanze chimiche e materiali pericolosi (Traguardo 6.3).
Secondo l’ultimo dossier di Legambiente, una delle maggiori criticità delle acque italiane è lo stato chimico. Spesso le acque dei fiumi e dei laghi, così come quelle di falda sotterranee, sono utilizzate per smaltire i reflui delle lavorazioni industriali e agricole.
I maggiori inquinanti chimici dell’acqua
Tra le sostanze maggiormente inquinanti ci sono quelle organiche, tra cui gli idrocarburi policiclici aromatici (Ipa), i composti del benzene e altri composti principalmente contenuti nei pesticidi, erbicidi e nelle vernici, e i metalli pesanti come lo zinco, il nichel e il mercurio seguiti dal piombo e dall’arsenico. Le sostanze organiche rilasciate nell’ambiente sono pari al 15% del totale mentre i metalli pesanti raggiungono l’80%. I soli pesticidi contribuiscono all’inquinamento delle acque solo per lo 0,2%.
Glifosato, diossine e Pfas: i principali contaminanti da tenere sotto controllo
Tra le sostanze potenzialmente pericolose da monitorare in maniera prioritaria c’è il glifosato,un erbicida largamente diffuso dagli anni Settanta e sospettato di cancerogenicità. Anche le diossine, derivanti da processi di combustione sia naturali (incendi) che provocati da attività umane (incenerimento dei rifiuti, attività industriali) sono sotto osservazione per le loro possibili conseguenze sul sistema immunitario ed endocrino.
Le sostanze organiche perfluoroalchiliche (Pfas) sono interferenti endocrini sospettati di causare alcune tipologie di tumore, in particolare quello ai reni.
Da tenere sotto controllo ci sono anche i cosiddetti inquinanti emergenti: i prodotti farmaceutici, i pesticidi di nuova generazione, gli additivi plastici industriali, i prodotti per la cura personale come le creme solari e le microplastiche. Infatti, la nuova direttiva dell’Unione europea 2020/2184 introduce la creazione di un nuovo elenco di parametri inquinanti e il monitoraggio sull’intera filiera idro-potabile, dalla captazione alla potabilizzazione ed erogazione dell’acqua.
La privatizzazione dell’acqua ne impedisce l’utilizzo da parte di tutti
La direttiva dell’Unione europea 2020/2184, coerentemente a quella precedente 98/83/CE, ha come obiettivo anche il miglioramento dell’accesso universale alle acque potabili sicure.
Marzia Marchi, del Comitato acqua pubblica di Ferrara, afferma ad Agenda 17 che anche in Italia l’accesso per tutti all’acqua sicura è un problema non del tutto risolto. Sebbene sia garantita per legge, in realtà la distribuzione dell’acqua non è uniforme sull’intero territorio nazionale.
Attualmente, nel centro-Nord, la gestione dell’acqua è affidata dai Comuni alle multiutilities, enti privati che corrispondono il servizio a fronte del pagamento di una tariffa. Al Sud, invece, la gestione idrica è controllata da aziende in house, un’estensione delle amministrazioni territoriali.
“Il servizio, quindi, – sottolinea Marchi – non è erogato a coloro che non hanno la possibilità di pagare, a meno che il Comune non si faccia carico del pagamento presso gli enti privati. Questo è valido sia per quella parte di popolazione economicamente svantaggiata che per le comunità nomadi, a cui non resta che utilizzare le fontane pubbliche, non sempre in condizioni ottimali. Ciò è in contrasto con il diritto all’accesso universale all’acqua sancito dall’Onu nel 2010.”
“Sembra quasi un ritorno al passato – continua Marchi. – Invece quando l’acqua era gestita direttamente dai Comuni, mediante società municipalizzate, c’era l’obbligo di portare l’allaccio alla rete idrica in tutte le abitazioni, di qualunque natura fossero.”
Anche l’inefficienza delle reti idriche e l’assenza di una normativa nazionale incidono sulla disponibilità di acqua
Il Rapporto Asvis 2021 segnala che nella maggior parte delle Regioni italiane è diminuita l’efficienza delle reti idriche rispetto al periodo precedente. Ad esempio, nel Lazio, in particolare nelle Province di Rieti, Frosinone e Latina, si disperdono circa i due terzi dell’acqua immessa in rete. Nel Sud, Abruzzo e Campania mostrano i dati più preoccupanti: l’efficienza idrica di Chieti è pari al 25,3%, mentre quella di Salerno al 38,0%.
“A livello nazionale c’è una dispersione media del 40% dell’acqua in tubatura – afferma Marchi – mentre a Ferrara attualmente si aggira intorno al 26%. Ciò significa che si affrontano dei costi per potabilizzare l’acqua che poi viene dispersa per l’inefficienza delle reti.
Le reti idriche sono pubbliche e ai gestori privati non conviene intervenire per migliorarle. Le aziende recuperano i costi della perdita di acqua aumentando le bollette e rendendo più difficile il pagamento a coloro che sono economicamente svantaggiati.” Inoltre la perdita di acqua lungo il tragitto rende più difficile garantire un servizio costante alle periferie.
Anche la conformazione territoriale determina differenze nell’accesso all’acqua potabile. Ad esempio, le isole hanno una gestione localizzata del servizio idrico, spesso garantito con l’ausilio di autobotti, soprattutto in estate quando si verifica una carenza di afflusso di acqua ai bacini a causa della scarsità delle piogge. Secondo la rappresentante del Comitato, questa distribuzione razionata non dipende solo dalla disponibilità di acqua nei territori ma soprattutto dalla mancanza di una normativa strutturata a livello nazionale che definisca modalità univoche per la gestione dei servizi idrici sull’intero territorio.
Dopo dieci anni il referendum sull’acqua pubblica non è ancora stato applicato, e la proroga dell’affidamento del servizio ai privati ostacola la gestione pubblica
A livello normativo, infatti, il referendum del 2011 aveva sancito l’abrogazione delle leggi sulla privatizzazione dell’acqua per cui la sua gestione sarebbe dovuta tornare al settore pubblico. In realtà il servizio idrico, dalla captazione alla distribuzione compresa la potabilizzazione è ancora nelle mani di aziende private.
“Stando all’articolo 6 del recente Decreto-legge Concorrenza – afferma Marchi – gli enti locali che opteranno per una gestione in house del servizio idrico dovranno ‘giustificare’ la scelta del mancato ricorso al mercato, ad esempio portando elementi di bilancio da cui emerge che è conveniente mantenere una gestione interna dell’acqua.”
Ad esempio in Emilia-Romagna è stata approvata una legge regionale che permette la proroga dell’affidamento delle reti di captazione e distribuzione dell’acqua agli enti privati. In questo modo non si dà la possibilità di passare a una gestione pubblica del servizio. “La legge regionale – precisa Marchi – è stata poi impugnata presso la Corte costituzionale dal Forum nazionale dell’acqua perché viola il Codice dell’ambiente.”
Anche il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) non esclude la privatizzazione dell’acqua. Non si esprime, invece, sulla sua qualità ovvero sui parametri da controllare affinchè possa essere considerata sicura.
“Nonostante esista una normativa nazionale come il Codice dell’ambiente – prosegue Marchi – che definisce i parametri standard sulla qualità e sicurezza delle acque potabili, ogni multiutilities stila una propria lista di parametri da controllare, scelti anche in base al territorio su cui operano.”
Ad esempio, i PFASs, composti chimici utilizzati in campo industriale per la loro capacità di rendere i prodotti impermeabili all’acqua e ai grassi, sono rilevate principalmente in Veneto. In Lazio invece è stato aumentato il parametro riguardante la concentrazione di arsenico, a causa di una sua elevata presenza su tutto il territorio. Nonostante i processi di depurazione, non sempre si riescono ad ottenere valori bassi tanto da sospendere l’erogazione di acqua dai rubinetti.
Nonostante la spesa e l’inquinamento da plastica, si preferisce comprare acqua in bottiglia
Tra le proposte presentate nel Rapporto Asvis 2021 rientra lo sviluppo di campagne di sensibilizzazione per aumentare la fiducia nell’utilizzo di acqua di rubinetto da parte dei consumatori finali.
Non a caso dai dati Asvis 2020 emerge che circa il 28,4% della popolazione italiana non si fida a bere acqua dal rubinetto. Secondo il rapporto, le Regioni dove si mostra una maggiore sfiducia sono il Veneto e la Campania. Al contrario, in Puglia e Sicilia si registra una riduzione del numero di famiglie che non si fidano dell’acqua di rubinetto.
Le motivazioni della sfiducia vanno ricercate principalmente nella paura di ingerire acqua inquinata che possa comportare rischi per la salute. L’utilizzo di acqua in bottiglia crea maggiore sicurezza nonostante l’acqua del rubinetto sia controllata di più e più regolarmente delle acque minerali imbottigliate.
“C’è ancora molto lavoro da fare per migliorare l’accessibilità e la sicurezza dell’acqua – puntualizza Marchi. Per poter garantire a tutti l’utilizzo di una risorsa così preziosa è necessario partire dall’educazione, nelle scuola, nelle università e attraverso i media, all’uso corretto dell’acqua. Un’educazione non banale, che non sia ridotta al semplice chiudere il rubinetto mentre ci si lava i denti, ma una vera e propria responsabilizzazione verso una risorsa limitata ed essenziale per la vita.” Bisogna intervenire lì dove non è necessario l’utilizzo di acqua potabile, ad esempio nei servizi igienico-sanitari, per ridurne lo spreco. È necessario tenere sotto controllo tutte le possibili fonti di inquinamento delle falde e di tutti i punti di captazione dell’acqua. Essenziale è anche continuare la battaglia per la ripubblicizzazione dell’acqua, evitando che venga considerata come una merce qualunque e pertanto debba sottostare alle leggi del mercato.