Sempre più spesso i cittadini citano in giudizio i governi per inadempienze nella lotta contro il cambiamento climatico, basandosi su dati scientifici. Ma né la scienza, né il giudice possono giocare il ruolo di un “legislatore parallelo”. Fondamentale il funzionamento delle politiche ambientali come fonti di produzione giuridica e la partecipazione pubblica democratica alle deliberazioni legislative. Solo in un quadro di regole certe, la locuzione “giustizia climatica” può acquistare un significato di valore e di obiettivo.
Gli anni che ci separano dagli Accordi di Parigi (2015) sono stati caratterizzati da un intensificarsi del timore che l’umanità non riesca a sopravvivere alla incombente catastrofe umanitaria legata al surriscaldamento globale. Il susseguirsi di prognosi scientifiche infauste sul futuro del Pianeta ha alimentato un linguaggio di protesta verso le istituzioni politiche e di sfiducia nei meccanismi di produzione legislativa del diritto.
Una delle conseguenze di questa radicalizzazione del senso di appartenenza a un’epoca emergenziale, dominata dalla sensazione di trovarsi a un punto di non ritorno e di dover giocare al meglio le ultime chance, è stata, inevitabilmente, la pressione sul giudiziario: la ricerca di sentenze epocali, “millenaristiche”, che le Corti hanno in parte – forse meno di quanto sembra, ma senza dubbio – contribuito a incoraggiare.
Il diritto alla vita si è mescolato, in un certo immaginario collettivo, con il diritto alla stabilità del clima e questo ha spinto formazioni sociali a comportarsi come il famoso mugnaio di Potsdam (che però era una persona, non un’organizzazione non governativa), andando alla ricerca di un “giudice a Berlino”, disposto a dichiarare che il sistema capitalistico porta, anche giuridicamente, una responsabilità per non aver intrapreso una credibile azione di contrasto alle emissioni di gas a effetto serra.
Complessivamente considerate, le motivazioni delle sentenze con cui le Corti si sono pronunciate su questo genere di domande, dando origine a nuove cause tuttora pendenti, tese a ottenere pronunce analoghe, costituiscono il fenomeno che nel dibattito pubblico si definisce sempre più spesso “giustizia climatica”.
Come abbiamo visto in occasione di recenti consessi internazionali, quali il G20 di Roma e la COP26 di Glasgow, la giustizia climatica è ancora una formula politica, che simboleggia l’unione dei governi di tutto il Mondo nella lotta al surriscaldamento globale. Ma le sue basi sono poste sotto attacco dall’attivismo dei movimenti sociali, il cui slogan è la condanna inappellabile della politica, colpevole di immobilità, incapacità o ipocrisia (il famoso “bla bla bla” dell’attivista Greta Thunberg, ripetuto dal Primo Ministro britannico Johnson alla COP 26 di Glasgow).
Sta di fatto che l’impegno della società civile ha progressivamente raffinato gli obiettivi della propria strategia: non è più soltanto un movimento di piazza o una campagna di sensibilizzazione, ma un progetto di lotta giudiziaria che offre l’impressione di aver “colonizzato” l’avvio di iniziative processuali, da una parte all’altra del Mondo, con una rapidità in effetti forse mai vista prima d’ora, almeno in termini di mobilitazione dei gruppi di pressione verso le Corti.
Dalla sentenza olandese del 2015 le cause si sono moltiplicate. Nascono, in numero sempre maggiore, gli Osservatori del contenzioso climatico.
Torniamo indietro di qualche anno. Il 2015 è stato l’anno dell’Agenda ONU per il 2030 e degli accordi di Parigi. Ma è stato anche l’anno della sentenza pronunciata dalla Corte distrettuale di Hague (confermata dalla Corte d’appello nel 2018 e dalla Corte suprema olandese nel 2020), su ricorso dell’organizzazione ambientalista Urgenda (contrazione di “Urgent agenda”) contro l’Olanda. È la prima sentenza che ordina a uno Stato di limitare il volume annuale delle emissioni di gas a effetto serra, riducendolo di almeno il 25% entro la fine del 2020 rispetto al livello del 1990.
Sulla falsariga di Urgenda si sono registrate un’impennata di azioni legali e una moltiplicazione di casi, il cui esito è stato reclamizzato come una vittoria della società civile, spesso utilizzando la formula della sentenza “storica”: la Corte suprema irlandese, in un processo contro la Repubblica d’Irlanda, nel 2020; di nuovo una Corte distrettuale olandese, nel 2021, in una causa contro la Shell e il suo gruppo, anch’essa condannata ad abbattere il volume annuale delle emissioni di almeno il 45% entro la fine del 2030 rispetto al livello del 2019.
Il Tribunale costituzionale tedesco, in un giudizio contro la Repubblica federale tedesca, sempre nel 2021, ha dichiarato incostituzionale la legge federale sul clima, su ricorso diretto di cittadini e associazioni (tra cui Fridays for Future); il Tribunale amministrativo di Parigi nel 2021, in un processo contro la Francia, nella controversia rinominata “Affaire du Siècle”, che ha condannato lo Stato transalpino a pagare la cifra simbolica di 1 euro per danno “morale”, a ciascuna delle quattro associazioni ambientaliste ricorrenti, nonché a “prendere tutte le misure per raggiungere gli obiettivi che la Francia si è prefissata in termini di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.”
Nel medesimo arco temporale sono state avviate nuove controversie, tuttora pendenti presso vari tribunali, come nel caso dell’Italia (Tribunale di Roma, causa ribattezzata “Giudizio universale”), ma anche della Spagna, del Regno Unito, della Repubblica Ceca, della Polonia, di quasi la metà degli Stati federati tedeschi (Länder), trascinati in giudizio, uno per uno, a più riprese, dopo la citata sentenza del Bundeserfassungsgericht (Baviera, Sassonia-Anhalt, Brandeburgo, Saarland, Meclemburgo-Pomerania Anteriore, Assia, Nord Reno -Westfalia). Spostandoci oltreoceano (senza considerare l’esperienza statunitense), nuove controversie sono nate in Brasile, in Messico, in Nuova Zelanda, in Australia, convenuta dalle Isole Torres, le quali affermano di aver subito danni irreversibili per effetto della politica climatica australiana.
Anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nel 2021, ha dovuto statuire su un ricorso (in C-565/19, ridefinito “People’s Climate Case”, ma dichiarato irricevibile dalla Corte) presentato da alcune famiglie originarie di vari Stati membri dell’Unione europea (Francia, Germania, Italia, Portogallo e Romania) e di altri Paesi extraeuropei (Kenya e isole Fiji), operanti nei settori dell’agricoltura o del turismo, nonché da un’associazione svedese che rappresenta i giovani autoctoni Sami, per costringere l’Unione ad adottare misure di contenimento più adeguate di quelle previste dal “pacchetto clima” del 2018.
Aumentano qua e là le organizzazioni aventi forma di “osservatorio” sul contenzioso climatico, come il “Climate Change Litigation Data Base” del “Sabin Centre for Climate Change Law”, istituito dalla Columbia Law School e dello Studio legale Arnold & Porter.
Questa lunga illustrazione dimostra che oggi la giustizia climatica evoca soprattutto l’esistenza di un particolarissimo contenzioso, una vera e propria giurisprudenza, che riconosce la legittimazione, talvolta congiunta, di organizzazioni non governative e di persone fisiche (anche giovani o giovanissimi) a intraprendere la via giudiziaria per il conseguimento dell’obiettivo previsto dall’art. 2 degli Accordi di Parigi: mantenere l’aumento della temperatura media mondiale possibilmente sotto 1,5°, comunque “ben al di sotto di 2 °C” rispetto ai livelli preindustriali.
Il fondamento giuridico di queste cause è la cosiddetta obbligazione climatica: un teorema rafforzato dal carattere prescrittivo della scienza “non controversa”. Non solo la diagnosi in merito alle cause del surriscaldamento, ma anche la prognosi, basata su modelli e proiezioni del futuro, per cui l’applicazione di determinati standard di gestione del carbon budget porterà all’abbassamento delle emissioni, avrebbe il pregio della certezza scientifica e consentirebbe ai cittadini di pretendere dallo Stato un comportamento conforme in sede giudiziaria, indipendentemente dalla mediazione politica degli organi rappresentativi nazionali e delle istituzioni internazionali.
Il fondamento giuridico delle cause climatiche è la presunta normatività della scienza “certa”.
Le norme che definiscono il comportamento necessario per contenere la temperatura globale entro i limiti stabiliti dagli Accordi di Parigi non apparterrebbero, dunque, al campo delle norme sociali, ma a quello delle norme tecniche: all’ordine esistenziale retto dal principio di causalità, come la regola per cui “se vuoi far bollire l’acqua, occorre portarne la temperatura a 100°”, che “varrebbe anche per Robinson nella sua isola deserta” (V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1970).
Qui però incominciano anche i dubbi sulla fondatezza di un simile costrutto. Fino a che punto si può sostenere che l’obbligo internazionale dello Stato di ridurre le emissioni di gas a effetto serra, solo perché costruito su basi scientifiche “non controverse”, derivi da regole “tecniche” e, per questo motivo, costituisca il contenuto di un diritto umano fondamentale? Siamo sicuri che basti la convergenza di opinioni scientifiche sul problema del clima, unita all’emergenza, per affermare che ogni cittadino sia “creditore”, verso lo Stato, di una “obbligazione climatica”?
Gli obiettivi fissati dagli Accordi di Parigi e i modi per raggiungerli sono basati su conoscenze scientifiche, ma non esprimono regole tecniche. È vero che la prognosi della scienza non registra finora significativi dissensi sulle conseguenze che il Pianeta subirà se non si riusciranno a contenere le emissioni di gas e effetto serra. Ma il consenso o mancato dissenso della “comunità scientifica” non fa di quest’ultima un “legislatore parallelo”: è il contenuto intrinseco della regola, la sua obbiettiva verificabilità nell’ordine esistenziale delle cose, a renderla idonea a costituire parametro per la risoluzione di concrete controversie.
Le modalità e le scansioni ottimali per la programmazione del carbon budget nei prossimi anni, quantunque sostenute da modelli predittivi e proiezioni climatiche, non possono portare al riconoscimento di un “diritto alla stabilità climatica”, così come, per intenderci, le acquisizioni della ricerca sulla manipolazione degli ovociti, degli spermatozoi o degli embrioni hanno supportato il riconoscimento di un diritto alla procreazione medicalmente assistita.
Il non dissenso di una scienza predittiva può condizionare il legislatore nel costruire le regole; ma non altrettanto facilmente può dire a un giudice come deve comportarsi.
L’Unione europea, almeno dal 2003, ha una propria legislazione in materia di scambio di quote di emissione (Emission Trading System, o ETS), ora parzialmente innovata dal “pacchetto clima” del 2018 (formato da una direttiva e tre regolamenti europei).
Pochi mesi addietro, facendo seguito agli obiettivi di “impatto climatico zero” stabiliti dagli Accordi di Parigi e al Green Deal della Commissione, il Regolamento europeo 2021/1119/UE, in vigore dal 29 luglio 2021, ha istituito un quadro per arrivare progressivamente alla neutralità climatica entro il 2050 (termine corredato da verifiche intermedie), prevedendo entro il 2030 una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 55% rispetto ai livelli del 1990.
Ora quindi esiste un’obbligazione climatica, vera e propria (almeno per gli Stati della UE). Che ne sarà degli schemi adottati dalle sentenze di cui sopra? Il diritto fondamentale alla stabilità del clima si è dissolto nell’effetto vincolante del nuovo Regolamento; o si deve ritenere ancora direttamente azionabile in giudizio, a prescindere da ciò che prevedono le fonti scritte?
La Corte di Cassazione, nel 1979, quando incombeva sull’umanità una minaccia diversa, ma non meno paurosa – quella dell’incidente nucleare – azzardò questa seconda soluzione. La Corte fu agevolata dal fatto che, in quel caso, le si chiedeva soltanto di stabilire se il Tribunale civile di Vercelli avesse giurisdizione sulla domanda di un gruppo di cittadini che intendevano fare causa all’Enel per opporsi alla costruzione di una nuova centrale per la produzione di energia atomica.
Al che la Corte rispose di sì: che ogni uomo ha il diritto fondamentale, inalienabile, costituzionalmente garantito, di fruire di un ambiente salubre, incluso quello di bloccare la costruzione di un nuovo impianto potenzialmente pericoloso. Salvo poi precisare che quel diritto non era, in realtà, ciò che propriamente si chiama un “diritto dell’uomo”: era un diritto dei “vicini”, di chi poteva dimostrare una lesione della sua proprietà o della sua salute, cioè del “proprio” ambiente, trovandosi in una condizione di prossimità all’impianto; un diritto, scrisse la Corte, di “proprietari e usufruttuari di tenute agricole” alla “conservazione dei loro beni e dell’ambiente in cui essi sono inseriti”.
Quella sentenza non fu l’unica ad affermare che il “diritto all’ambiente salubre” è un diritto individuale, indegradabile, incomprimibile, difendibile a oltranza verso i pubblici poteri. Ma si rivelò assai meno dirompente di quanto appariva a prima vista. Dopo neanche un decennio, la legge istitutiva del Ministero dell’ambiente (1986) e alcune importanti sentenze della Corte costituzionale chiarirono che il principio-cardine della tutela dell’ambiente è molto diverso.
L’ambiente è un bene di tutti, non l’oggetto di diritti singolari ed esclusivi.
L’ambiente non è l’involucro di diritti personali o dominicali; è un bene pubblico, comune, unitario: la sua tutela è interesse di tutti, spetta dunque alla legge e, in esecuzione della legge, alla pubblica amministrazione. Negli ordinamenti democratici, la tecnica di tutela verso lo Stato della pretesa a un ambiente migliore non segue il paradigma della lite di vicinato, cioè della esclusione di interventi pubblici che non costituiscano esatto adempimento nei confronti di soggetti determinati.
La modalità di tutela è, piuttosto, quella sancita nella convenzione di Aarhus (1998): informazione, partecipazione alle decisioni, ampio accesso alla giustizia ambientale del “pubblico”, affinché leggi e atti amministrativi illegittimi, lesivi dell’ambiente, possano essere agevolmente conoscibili, pubblicamente discutibili, facilmente impugnati. L’adattamento degli Stati membri al Regolamento europeo del luglio 2021 sarà certamente occasione di sviluppo per questo genere di pretese, che contraddicono il teorema della obbligazione climatica come posizione correlata a un diritto fondamentale.
A proposito va aggiunto che, a prescindere dal Regolamento europeo, le stesse sentenze simbolo della vittoria della società civile contro lo Stato, in prevalenza negano, piuttosto di mettere in risalto, che il diritto alla stabilità climatica sia un diritto fondamentale. Fatta eccezione per la pronuncia federale tedesca, relativa a un ordinamento in cui è ammesso esplicitamente il ricorso individuale diretto alla Corte costituzionale per la tutela dei diritti fondamentali, i cittadini singoli sono stati, in quelle sentenze, il più delle volte esclusi dalla possibilità di intraprendere il giudizio, per mancanza di legittimazione ad agire, al contrario delle organizzazioni non governative (indicativa la sentenza olandese contro la Shell), la cui legittimazione è invece presunta e indiscussa.
Esplorato fino alle sue radici più sottili, quindi, l’affresco che ci viene restituito dalla Climate change litigation non è privo di lati oscuri e può persino prestarsi al sospetto di discriminazioni: le organizzazioni non governative ricevono dalla giurisprudenza climatica un incondizionato riconoscimento di rappresentatività sociale.
Nella misura in cui questa rappresentatività è ottenuta grazie alla esclusione dell’azione diretta dei rappresentati, ottengono anche e soprattutto “potere”, per il solo fatto di trovarsi a decidere ciò che i singoli non potranno mai: se e quando conviene promuovere la causa, quali soglie di riduzione delle emissioni individuare, entro quale anno programmare il risultato; quali interessi, insomma, concretamente “filtrare” ai fini del giudizio contro i responsabili del riscaldamento globale.
L’interpretazione dell’obbligazione climatica che emerge dalle sentenze non è univoca
Ma è poi vero – per concludere – che le sentenze di cui s’è fatta una rapida rassegna accertano e sanzionano l’inadempimento di una “obbligazione climatica”?
Ciò sembra sicuro per le due sentenze olandesi del 2015 e del 2021, nei confronti dello Stato olandese e della Shell.
È molto meno vero per la pronuncia del Tribunale costituzionale tedesco, il cui schema applica un normalissimo criterio di proporzionalità e ragionevolezza, sia pure nei confronti di una legge sulle emissioni di gas a effetto serra: il Klimaschutzgesetz è stato dichiarato incostituzionale per aver leso i diritti fondamentali garantiti dall’art. 20a GG, a causa del suo “insufficiente orizzonte di pianificazione”, avendo fissato il primo controllo sulle riduzioni al 2025 e, in tal modo, creato il rischio che un eventuale esito negativo, emergendo in data troppo vicina al 2030, pregiudicasse la transizione verso la “neutralità climatica” perseguita dalla stessa legge.
Non molto diverso è il caso Irlandese, dove la Corte, nella parte conclusiva della sentenza, precisa di considerare il piano nazionale di riduzione delle emissioni in contrasto con il Climate Action and Low Carbon Development Act (2015) per via della durata soltanto quinquennale del piano stesso, che non rende pertanto comprensibile la politica climatica irlandese fino al 2050. Un difetto di trasparenza e partecipazione che, specifica la Corte, non implica affatto l’esistenza di un diritto costituzionale inespresso “all’ambiente salubre”, rispetto al quale l’associazione ricorrente (Friends of the Irish Environment) non avrebbe comunque titolarità, né legittimazione ad agire.
Lo stesso dicasi per il caso francese, dove il tribunale amministrativo ha accertato la responsabilità dello Stato non per la lesione di un diritto fondamentale, ma per non aver raggiunto il traguardo programmato; e ha assunto quale parametro non la scienza, ma “les objectifs que la France s’est fixés”, ingiungendo al Governo di adottare tutte le misure necessarie per prevenire ulteriori danni “fino alla quota non compensata di emissioni di gas a effetto serra nel quadro del primo bilancio del carbonio”. D’altra parte, pochi hanno dato risalto a una diversa giurisprudenza, che non segue la via della “obbligazione climatica”, ma che è probabilmente più significativa.
Il 2021 è stato anche l’anno in cui il Tribunale di primo grado dell’Unione europea, su ricorso dalla Organizzazione non governativa Client Earth, ha imposto alla Banca europea degli investimenti di riesaminare gli aspetti ambientali di una propria decisione di concedere un prestito a scopo di finanziamento (secondo la Ong, non coerente alle politiche ambientali dell’Unione).
Non sarà una decisione “storica”, ma è certo molto interessante, giacché qui la tattica difensiva della Ong ha battuto sul punto dell’applicabilità della convenzione di Aarhus, ottenendo dal Tribunale UE una fondamentale statuizione: le delibere di finanziamento della BEI, quando contribuiscono al perseguimento degli obiettivi di politica dell’Unione nel settore dell’ambiente, si considerano provvedimenti adottati “nell’ambito del diritto ambientale”. Con la conseguenza che le Ong possono provocare il “riesame interno” previsto dall’articolo 10 del “regolamento Aarhus” (1367/2006), il cui ambito di applicazione deve essere interpretato ”estensivamente”.
Ancora nel 2021, la Corte di Cassazione (ordinanza n. 5022), richiamando espressamente il caso Teitiota c. Nuova Zelanda, ha riconosciuto che il diritto alla protezione internazionale non spetta soltanto al cittadino straniero i cui diritti fondamentali risultino minacciati da una situazione di conflitto armato in corso nei Paesi di origine, ma anche in caso di “rischio per il diritto alla vita e all’esistenza dignitosa derivante dal degrado ambientale, dal cambiamento climatico o dallo sviluppo insostenibile”. Ne è derivato il riconoscimento, anche in Italia, della figura del “rifugiati climatici”, che produce un sensibile avanzamento nella tutela dei diritti dei migranti.
Si volevano addurre questi esempi perché identificano il genere di pronunce in cui il giudice manifesta la giusta sensibilità verso la questione climatica: l’approccio al caso rimane entro i binari dell’interpretazione e dell’applicazione dei testi giuridici, in una direzione indubbiamente meno clamorosa, ma sostanzialmente più esatta e forse anche più produttiva di quella in cui procedono le decisioni giudiziarie presentate come “vittorie della società civile”.
Le due sentenze olandesi restano, dunque, gli unici casi nei quali il teorema dell’obbligazione climatica è stato propriamente assunto a ratio decidendi. Potrebbe essere l’inizio di una nuova era, nella quale si moltiplicheranno le condanne nei confronti degli Stati per non aver affrontato in modo sufficientemente ambizioso il problema del riscaldamento globale. Oppure quelle sentenze resteranno fenomeni complessivamente marginali: frammenti di un cammino legislativo che manterrà il baricentro nell’azione degli organi politico-rappresentativi e che potrà essere ancora giudicato dalle Corti; ma che potrà forse fare a meno di una giustizia “climatica”.