Nelle scorse settimane, mentre il G20 prometteva di piantare mille miliardi di alberi, alla COP 26 ci si proponeva di fermare la deforestazione entro il 2030. Un obiettivo importante, potenzialmente decisivo per il futuro dell’ambiente e per la mitigazione del cambiamento climatico. Eppure, la gestione delle foreste come risposta al riscaldamento globale continua a generare interrogativi per quanto riguarda l’efficacia degli interventi e le ripercussioni sulla salute degli habitat naturali.
Deforestazione e forestazione fondamentali per i uovi impegni per il clima
Secondo il gruppo di ricerca Climate Action Tracker, la stima totale della quantità di CO2 che verrà sottratta all’atmosfera grazie agli impegni presi a Glasgow su carbone, metano, veicoli elettrici e gestione delle foreste si attesta intorno ai due miliardi di tonnellate. Si tratta di accordi che esulano dal tracciato dei Nationally determined contributions (Ndc), o risoluzioni nazionali, e che saranno tuttavia fondamentali per avvicinarsi al traguardo degli 1,5 gradi, altrimenti del tutto irraggiungibile.
Prendendo in considerazione gli effetti dei soli Ndc, infatti, l’aumento delle temperature oscillerà comunque tra gli 1,9 e i 3 gradi. I nuovi impegni tematici che coinvolgono in maniera innovativa Paesi e aziende nelle cosiddette “coalizioni di volenterosi” racchiudono quindi un grande potenziale, anche se rischiano di concretizzarsi in azioni parziali e scarsamente controllabili sul lungo periodo.
In particolare, gli impegni su deforestazione e forestazione hanno suscitato l’attenzione di scienziati e ambientalisti. Da una parte, infatti, sono questi gli interventi che, insieme alle misure per la riduzione delle emissioni di metano, incideranno di più sul risultato finale. Dall’altra, quello della forestazione è un tema caldo, che si presta a interpretazioni differenti.
“Il sentimento più immediato che nasce dall’esito della Cop26 di Glasgow è quello della delusione. Tutti speravamo di più, tutti sognavamo in qualche modo una svolta, che non c’è stata e forse non poteva esserci – ha dichiarato ad Agenda17 Danilo Selvaggi, Direttore di Lipu – BirdLife Italia -, però non dobbiamo fermarci alla delusione generale ma tentare un’analisi più dettagliata, che ci permetta di capire meglio.”
Come ha scritto Selvaggi nei giorni scorsi, “l’accordo sulle foreste va assolutamente accompagnato da un programma serio e razionale di localizzazione degli interventi. Gli alberi sono straordinari dispositivi di tecnologia naturale contro la crisi climatica ma anche elementi dell‘habitat e del paesaggio, tutt’altro che neutri. Non possono essere messi ovunque, a prescindere dall’ecologia. Questo rischio è tra l’altro da evitare anche nella riforestazione italiana prevista dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).”
“L’accordo sulle foreste gode di 12 miliardi di sostegno economico pubblico e 7,2 miliardi che arriveranno dal privato. In questo genere di situazioni, il denaro ha la sua importanza perché permette di rinunciare allo sfruttamento delle risorse (in tal caso le foreste) potendo bilanciare le perdite economiche – prosegue Selvaggi -. Inoltre, un alto numero di Paesi (più che in passato) ha sottoscritto l’accordo.
Al tempo stesso, però, l’accordo non risulta chiaro in tutti gli aspetti ed è molto condizionato dal no dell’Indonesia, la cui incidenza sulla materia, come sappiamo bene, è pesante.” Rimane poi un dubbio importante: non è ancora confermato infatti quale percentuale degli interventi interesserà le foreste già esistenti traducendosi in uno stop alla deforestazione e quale invece andrà a sostenere azioni dirette di forestazione.
I limiti della forestazione
La forestazione è vista con sospetto dagli ambientalisti per diverse ragioni, in gran parte riassumibili nel motto “tanti alberi non fanno una foresta”. “La forestazione cattura l’attenzione mediatica, ma non la CO2” aveva dichiarato Greenpeace Italia nel marzo 2020, in occasione della Giornata mondiale delle foreste e della pubblicazione del rapporto Planting tree farms: no panacea for climate crisis.
Il rischio è infatti che gli interventi di forestazione vengano portati avanti senza prendere in considerazione gli habitat e le esigenze locali, facendo passare il messaggio che qualsiasi piantumazione – magari monoculturale o addirittura funzionale alla produzione di materie prime – possa trasformarsi in uno strumento di lotta al cambiamento climatico.
Come sintetizzato nella stessa occasione da Martina Borghi, responsabile della Campagna Foreste di Greenpeace, in assenza di un’approfondita progettazione le aree sottoposte a forestazione “diventano spesso luogo di sfruttamento per le popolazioni locali e sono inaccessibili alla fauna selvatica. Inoltre, il carbonio è per lo più immagazzinato nei fusti massicci e nelle radici profonde di alberi che hanno centinaia di anni. Piantare mille miliardi di alberi dicendo di voler compensare le emissioni di CO2 prodotte dall’estrazione dei combustibili fossili e continuare a distruggere foreste antiche non è la soluzione. Anzi, è parte del problema.
È fondamentale piuttosto agire immediatamente per ripristinare e conservare le foreste, riconoscendo l’enorme potenziale degli ecosistemi naturali nella lotta contro i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità.” La stessa necessità di legare in maniera profonda il problema della crisi climatica a quello della conservazione della natura viene evidenziata anche da Selvaggi nelle sue dichiarazioni ad Agenda17: “Nel vertice, le soluzioni a base di natura sono state considerate ma ancora in modo timido. Passi avanti si sono registrati, forse per la prima volta in tutti questi anni di vertici per il clima, ma insufficienti. A oggi, la natura continua ad essere sostanzialmente assente dal cuore del problema, cioè vista come un di più e non come la soluzione principale.”
Le basi scientifiche del dibattito
Le posizioni di Greenpeace e Lipu – BirdLife si scontrano con quelle portate avanti da iniziative come la One trillion trees del World economic forum: una campagna internazionale che mira al ripristino e alla piantumazione di foreste, per arrivare a mille miliardi di nuovi alberi piantati entro il 2050. One trillion trees ha generato l’entusiasmo di governi e mondo produttivo, anche da parte di soggetti in genere scettici nei confronti del cambiamento climatico, come l’ex Presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
La campagna – al pari delle misure individuate durante la Cop26 e, in maniera ancor più precisa, durante l’ultimo G20 – si basa sullo studio The global tree restoration potential, pubblicato su Science nel 2019 da un gruppo di ricercatori del Crowther Lab di Zurigo. Secondo l’articolo, “piantare mille miliardi di alberi” potrebbe, almeno in parte, risolvere la crisi climatica.
Nei mesi successivi all’uscita della ricerca, diverse pubblicazioni avevano però smentito i risultati sostenuti dal Crowther Lab. In una delle risposte più importanti sul tema, ossia il commento tecnico Comment on “The global tree restoration potential” pubblicato da Pierre Friedlingstein dell’Università di Exeter e colleghi, si leggeva: “gli autori hanno sopravvalutato fortemente il potenziale della forestazione nel mitigare il cambiamento climatico. L’affermazione che la forestazione sia la soluzione più efficace per il cambiamento climatico è semplicemente scorretta, nonché scientificamente e pericolosamente fuorviante.”
Nella visione di Friedlingstein la riduzione delle emissioni alla sorgente sarebbe molto più impattante rispetto ai tentativi di riassorbimento. Come si legge nel commento tecnico, lo studio del Crowther Lab non solo avrebbe commesso errori nel calcolo delle emissioni riassorbite dalle foreste, ma non avrebbe considerato la quantità di CO2 attualmente immagazzinata da ecosistemi come la tundra né analizzato il tipo di piantumazioni effettivamente sostenibili nelle diverse fasce climatiche.
Soprattutto, la strada indicata dal Crowther Lab non sembra risolvere il problema del riscaldamento climatico nel lungo periodo: le compensazioni proposte dagli autori “sono pari a circa 20 anni di emissioni globali di CO2 di origine antropica all’attuale tasso di emissione – si legge nel commento tecnico -. Senza riduzioni radicali delle emissioni di carbonio fossile, il ripristino delle foreste può quindi solo compensare una quota delle emissioni future. L’unico metodo sostenibile e a lungo termine per stabilizzare il clima è ridurre a zero le emissioni di CO2 antropogeniche. E per raggiungere gli obiettivi di temperatura dell’accordo di Parigi sul clima questo traguardo deve essere raggiunto entro i prossimi 30-50 anni.”
Continuare a tagliare alberi in aree urbane e sostituirli con alberelli è uno dei motivi del surriscaldamento, le poche aree verdi nelle zone abitate, vengono sacrificate ogni volta che si rifà una strada o un marciapiede
Grandi problemi grandi risposte, mi viene da riflettere leggendo l’interessante articolo di Chiara Spallino: “La gestione delle foreste divide esperti e ambientalisti”. Non posso certo dirmi un’esperta ma sento di potermi appropriare del titolo di ambientalista, per una pratica portata avanti sul territorio ferrarese nel quale vivo da oltre quarant’anni.
Abbiamo un grande problema di surriscaldamento climatico e vogliamo affrontarlo con la grande piantumazione di foreste e allora mi viene in mente l’Africa in cui ho prestato attività di volontariato. Sugli altipiani della Tanzania ho trovato, con mia grande sorpresa, enormi foreste di eucalipto, pianta chiaramente non autoctona, volute con grande passione dai progetti di cooperazione internazionale per la riforestazione di territori depredati dal bisogno di legna da ardere. L’eucalipto ben si adatta e cresce in fretta ma si è rivelato più un predatore che un dispensatore di energia, a parte il legno che fornisce. Dunque piantare alberi di per sé non basta anzi, in alcuni casi, può addirittura essere controproducente se appunto si tratta di monocolture o di piantagioni a scopo predeterminato. Per ricreare un ecosistema serve molto tempo: la pretesa tutta umana di poterlo reinstallare in maniera controllata è del tutto arbitraria.
Occorre una grande attenzione alla manutenzione dell’esistente che va applicata non solo alle foreste ma anche ai parchi, ai giardini privati, alle aree verdi che ancora esistono tra un’area urbanizzata e l’altra. Si sente troppe volte il mantra del tagliamo e poi ripiantiamo come se una vita vegetale potesse essere sostituita senza compromettere il microcosmo di vite che ruotano intorno ad esse. Una vita vegetale non è un manufatto che migliora l’efficienza con l’innovazione ma un un albergo di altre vite oltre che una centrale operativa di trasformazione della Co2 in ossigeno, che aumenta la propria efficienza col passare del tempo, esattamente al contrario di una macchina.
Credo che l’obiettivo dovrebbe essere quello di preservare ecosistemi e diffondere ecosistemi.