Si è conclusa la Conferenza delle parti (Conference of Parties, COP26) di Glasgow, la Conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici. Sei anni dopo gli Accordi di Parigi, quando i Paesi si impegnarono a creare piani nazionali di riduzione delle emissioni per limitare l’aumento della temperatura globale a 1.5 gradi, le promesse ambientali e l’impegno a finanziare la transizione anche nei Paesi in via di sviluppo appaiono ancora lontani dall’essere mantenuti.
Gli obiettivi iniziali di COP26 erano quattro: azzerare le emissioni globali nette entro il 2050 e limitare l’aumento della temperatura a 1.5 gradi; salvaguardare le comunità e gli habitat naturali; mobilitare i finanziamenti pubblici e privati da parte dei Paesi sviluppati; rafforzare la collaborazione tra governi, imprese e società civile.
Gli accordi finali dell’incontro tra i leader mondiali hanno però subito un compromesso al ribasso su tutti i fronti. Emblematico è stato il passaggio dall’impegno iniziale a una “eliminazione graduale” del carbone alla promessa della sua sola “riduzione graduale”, con un allungamento dei tempi per ottenere i traguardi stabiliti.
Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni unite, ha definito questo risultato “un compromesso che riflette gli interessi, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel Mondo di oggi”. Eppure è indispensabile intervenire subito, perché la battaglia per il clima è ormai urgente.
Un dossier sui nuovi temi centrali per realizzare la transizione ecologica
Oltre i limiti che la diplomazia internazionale ha imposto ai Paesi, COP26 ha però fatto emergere con forza alcuni temi nuovi e importanti, dai quali l’azione globale di contrasto al cambiamento climatico non potrà prescindere.
Con questo dossier Agenda17 ha deciso di approfondirli, ritenendo indispensabile affrontare con gli esperti di Unife, e non solo, le questioni che saranno determinanti nel prossimo futuro per la vita di ognuno di noi.
Prima di tutto, tra le azioni da intraprendere per azzerare le emissioni e contenere l’aumento della temperatura globale c’è sicuramente la riduzione della deforestazione. Tuttavia lo strumento della forestazione come risposta al riscaldamento globale genera dubbi e interrogativi da parte degli esperti rispetto alla sua efficacia, alla sua fattibilità e all’effetto che le piantumazioni potrebbero avere sulla biodiversità e gli ecosistemi.
In secondo luogo, l’obiettivo dell’adattamento per salvaguardare le comunità e gli habitat naturali e quello della collaborazione internazionale richiedono interventi mirati affinché la transizione ecologica sia compatibile con la giustizia climatica.
Anzitutto le nazioni più ricche devono fare di più per tutelare i Paesi che, meno responsabili del cambiamento climatico, ne subiscono per primi le catastrofiche conseguenze.
Inoltre, ora che l’impegno della società civile non è più solamente nelle piazza ma si misura nelle aule giudiziarie con cause che si moltiplicano contro Stati accusati di non fare abbastanza per ridurre le loro emissioni, si pongono questioni giuridiche nuove e complesse.
Infine è emersa in tutta la sua centralità e con forti elementi di novità la questione finanziaria. I Paesi sviluppati hanno promesso 100 miliardi di dollari l’anno per il clima, ma finora questa cifra non è mai stata raggiunta. La finanza pubblica e quella privata devono mobilitarsi per costruire un’economia a zero emissioni: com’è possibile?
Piantare più alberi potrebbe non essere la soluzione più efficace
Uno dei propositi espressi dalla COP26 è stato quello di fermare la deforestazione entro il 2030. Sebbene non si sia raggiunto un accordo unitario su questo tema, si tratta di un obiettivo importante, potenzialmente decisivo per il futuro dell’ambiente e del clima. Eppure, tra gli esperti si è aperto un vivo un dibattito sull’effettivo contributo delle foreste alla mitigazione del cambiamento climatico, mentre associazioni ambientaliste come Greenpeace e BirdLife richiamano soprattutto l’attenzione su una forestazione poco attenta alle esigenze locali e alla biodiversità.
Leggi tutto Piantare mille miliardi di alberi e bloccare la deforestazione? Dipende da come
La “giustizia climatica” è possibile solo con equità tra Paesi e con regole certe e partecipazione democratica sul piano giuridico
Giustizia climatica è anzitutto tutela dei Paesi che per primi subiranno le conseguenze del riscaldamento globale, pur non essendone la causa principale. La fotografia di Simon Kofe, Ministro degli esteri di Tuvalu, nell’Oceano Pacifico, ci pone davanti all’evidenza di un problema che i Paesi più ricchi non possono più ignorare: interi territori e le loro popolazioni rischiano di scomparire, nonostante siano i meno responsabili dell’emergenza climatica.
Per questo è importante legare il concetto di giustizia climatica alla giustizia sociale: i Paesi più poveri sono maggiormente vulnerabili anche perché non possiedono strutture sociali, politiche ed economiche tali da permettere loro di affrontare adeguatamente le conseguenze del cambiamento climatico.
Leggi tutto Chi non inquina paga
E cosa accade nelle aule di giustizia e in quelle legislative quando movimenti e cittadini invocano “giustizia climatica”? Nella rubrica Le parole e le cose si riflette – con esiti non scontati – su un fenomeno sempre più presente nel dibattito pubblico odierno. Dal 2015 continuano ad aumentare le cause giudiziarie promosse in primis dalla società civile contro Stati inadempienti sul fronte climatico. Siamo però certi che la scienza debba diventare un legislatore parallelo? E che le sentenze contro lo Stato non nascondano il rischio di discriminazioni a favore delle organizzazioni non governative e contro i singoli cittadini?
Leggi tutto Le parole e le cose: giustizia climatica
La finanza verde non esiste: bisogna rendere la transizione economicamente conveniente
La finanza non è verde né etica. Gli investimenti seguono logiche di convenienze relative. Per questo c’è bisogno di una tassa globale sulla CO2: è l’unico modo per far capire ai Paesi carbon intensive che continuare a investire sul carbone non conviene. Queste le conclusioni a cui giunge un’analisi disincantata su un tema che si è rivelato decisivo a Glasgow.
Chi si occupa di investimenti, infatti, segue sempre l’obiettivo di generare profitto. Non ci sono scelte etiche, ma scelte orientate dalle convenienze, e oggi investire sul carbone è ancora troppo conveniente. Per questo, abbiamo cercato di capire se sia possibile orientare l’agire dei fondi di investimento e delle istituzioni finanziarie in senso realmente green.
Una tassa globale sulla CO2 sembra l’unica strada al momento percorribile. Non è storicamente equa, ma la storia è unidirezionale e se il cambiamento climatico è un problema urgente e globale, allora anche la nostra risposta non può che essere tale. Per farlo, deve colpire da subito chi più contribuisce, oggi, alle emissioni, come Cina e India, anche se le loro responsabilità passate non sono equiparabili a quelle dei Paesi oggi più industrializzati.