Il 30 settembre si è chiusa la raccolta firme per il referendum sull’eutanasia legale promosso dall’associazione Luca Coscioni. Quello del fine vita è uno dei temi più controversi di sempre. Il diritto di poter decidere della propria morte comporta una complessa serie di dilemmi etici e legali.
Casi come quelli di Eluana Englaro, Piergiorgio Welby e, in tempi più recenti, Dj Fabo hanno imposto all’attenzione termini quali “eutanasia”, “suicidio assistito”, “testamento biologico” e “sedazione profonda”. C’è però grande confusione sul significato preciso di questi termini, e sulle loro reali implicazioni.
È bene chiarire anzitutto che esiste una differenza sostanziale fra eutanasia e suicidio assistito. Nel caso dell’eutanasia la morte avviene per azione diretta di un soggetto terzo delegato: il medico eutanasista. C’è poi una profonda differenza fra eutanasia attiva – ovvero la somministrazione di un farmaco letale – ed eutanasia passiva – l’interruzione di cure salvavita o il mancato inizio delle stesse.
Completamente diverso è invece il suicidio medicalmente assistito, in cui è il paziente stesso a togliersi la vita, autosomministrandosi in modo volontario un farmaco letale preparato dal medico.
Il diritto alla vita non può essere ceduto
Sono pochissimi gli Stati al Mondo in cui l’eutanasia attiva e passiva sono entrambe legali: Olanda, Belgio, Lussemburgo, Canada, e da poco anche la Spagna. In Italia manca ancora una legge. La resistenza nei confronti della pratica eutanasica attiva muove da ragioni che vanno ricercate nel fondamento stesso del diritto.
Come spiega ad Agenda17 Enrico Maestri, docente di Filosofia del diritto all’Università degli Studi di Ferrara, “da un punto di vista giuridico, non tutti i diritti sono uguali. Il diritto alla vita rientra nella categoria dei diritti di cui il soggetto non può disporre, in quanto fondamentali. Questi vengono tutelati per interesse pubblico e per il funzionamento della società, poiché ne costituiscono la base stessa.
Io non posso cedere il mio diritto alla vita, perché è indisponibile e inalienabile anche al suo titolare, così come non posso cedere il mio diritto alla libertà rendendomi volontariamente schiavo di qualcuno.” L’eutanasia attiva si basa infatti su un consenso da parte di un soggetto “avente diritto” ma, stando alla normativa attuale, il consenso trova un limite qualora si intenda cedere il diritto fondamentale stesso.
L’articolo 579 del codice penale punisce “chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui.” A questo articolo fa riferimento il quesito referendario promosso dall’associazione Luca Coscioni, che ne chiede la depenalizzazione.
Il caso Cappato e la sentenza sul suicidio assistito
Nel 2017 Marco Cappato si è autodenunciato per aver accompagnato in Svizzera Dj Fabo, che si è sottoposto a suicidio medicalmente assistito. Cappato ha violato l’articolo 580 del codice penale, che punisce l’aiuto al suicidio, e la Corte costituzionale è stata chiamata a esprimersi in merito.
“La Corte costituzionale è stata messa di fronte a una seria riflessione – spiega Maestri -: la medicalizzazione della vita, il suo prolungamento per mezzo di trattamenti sanitari fino a pochi anni fa impensabili, spingono a porsi la questione della dignità del paziente nel fine vita.”
E così è stato: la Corte costituzionale ha riconosciuto l’illegittimità dell’articolo 580. Di fatto ha sancito la non punibilità dell’aiuto al suicidio, ma solo nel caso specifico in cui chi desidera porre fine alla propria vita sia affetto da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, tenuto in vita a mezzo di trattamento di sostegno vitale ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
La sentenza copre un vuoto legislativo: a oggi, infatti, il Parlamento non si è ancora espresso al riguardo. “Ci troviamo con un’ordinanza, ma senza una legge – prosegue Maestri -. La discussione non è mai stata aperta, eppure parliamo di una situazione legale in molti Stati, che non presenta controversie. Il suicidio è un atto di libertà, giuridicamente irrilevante in quanto non comporta cessione di diritti, è piena autodeterminazione.”
In diversi Paesi del Mondo, fra cui la vicina Svizzera, il suicidio medicalmente assistito viene infatti praticato legalmente.
Abbiamo il biotestamento, ma non è vincolante
In Italia un primo passo in termini di legislazione è stato fatto sul testamento biologico. Dal 2018 è in vigore la legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento (Dat). L’iter per arrivare a questa legge è stato particolarmente complesso, frutto di una discussione portata avanti per più di un ventennio, tra disegni legge e cambi di rotta.
“Le Dat sono un decidere ora per allora – spiega Maestri -: servono a stabilire a quali trattamenti non vogliamo essere sottoposti se in un futuro ci trovassimo in una situazione di incapacità di intendere e di volere. La base della legge è il consenso informato: ogni persona ha diritto di essere informata sulla propria situazione medica e di poter decidere per un futuro in cui sarà impossibilitata a farlo.
Quello che è importante sottolineare è che la legge sul biotestamento non è una legge sul fine vita, in quanto non interviene su azioni volontarie dirette a porre fine alla vita, come eutanasia e suicidio assistito.”
Le Dat non sono pensate solo per i malati in fase terminale, ma anche per chi è all’esordio di patologie gravi, come Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) o tumori. Una volta depositate e autenticate da un organo competente, possono essere modificate fintanto che il disponente sia capace di intendere e di volere.
“La grande discussione nata già negli Stati Uniti negli anni Settanta è quella relativa alla possibilità di cambiare il proprio testamento biologico – afferma il giurista -, per questo in Italia si è inserita una parte riguardo la possibilità di nomina di un fiduciario. Nel caso il diretto interessato non sia più in grado di esprimersi, l’ultima parola spetta in alleanza terapeutica tra fiduciario e medico, in quanto, con l’evoluzione delle cure, in futuro trattamenti un tempo considerati insopportabili potrebbero cambiare completamente.”
Le scelte da fare sono complesse: intubazione, tracheotomia, rifiuto dell’accanimento terapeutico. Uno dei limiti principali del testamento biologico è la mancanza di un’adeguata informazione, spiega ad Agenda17 Loretta Gulmini, medico oncologo-palliativista dell’Ausl Ferrara e responsabile presso l’Hospice di Codigoro.
“È come rilasciare un’arma senza andare a vedere chi la utilizza e quale sia stata la formazione per utilizzarla. Una persona, prima di decidere, deve essere informata in modo chiaro dal sanitario sulle conseguenze del fare e del non fare. Si vedono spesso documenti compilati male, in cui le scelte del paziente si contraddicono. E in questi casi il medico diventa ancora una volta l’ultimo decisore in un frangente di emergenza, di pronto soccorso.”
Le Dat non sono infatti legalmente vincolanti per il medico, che ha la facoltà – e l’onere – di non tenerne conto qualora queste appaiano “manifestamente inappropriate o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente.”
Migliorare la qualità della vita dei malati terminali. L’aiuto delle cure palliative
I progressi della medicina moderna hanno ampliato la zona grigia fra vita e morte. La gestione delle scelte di fine vita non si può limitare solo agli aspetti giuridici, ma deve saper interpretare i bisogni individuali dei malati. Le Dat sono uno strumento importante ma, come abbiamo visto, a volte non sono sufficienti.
Secondo Gulmini, ciò che davvero fa la differenza è una comunicazione medico-paziente efficace ed empatica, che dedichi ai singoli il tempo necessario a operare scelte consapevoli.
Un approccio di questo tipo diventa possibile in un contesto di cure palliative, ovvero come le definisce l’Organizzazione mondiale della sanità quelle cure “volte a migliorare la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie nell’affrontare i problemi associati a malattie che mettono a rischio la loro vita”. Un sistema, quello della medicina palliativa, che non si limita ad assistere i malati in fase terminale ma li vuole accompagnare fin dall’inizio.
“Quello che caratterizza le cure palliative è un approccio personalizzato – spiega Gulmini -. Bisogna prendere in considerazione da prima la persona, avere al centro lei e la sua famiglia: un tempo di relazione inteso come tempo di cura. È così che noi abbiamo il modo, il tempo, forse un po’ la capacità di discutere con il malato, di condividere con lui anche il continuare alcune terapie rispetto ad altre, e arriviamo ad un piano di cure condiviso.”
Anche la Pianificazione condivisa delle cure è uno strumento previsto dalla legge, ma è meno conosciuto delle Dat. Si tratta di un accordo bilaterale e informale tra paziente e medico, grazie al quale le scelte terapeutiche vengono prese insieme e adattate di volta in volta a seconda delle situazioni concrete che si presentano.
Si parla, ad esempio, di terapia del dolore. Il timore di un fine vita caratterizzato dalla sofferenza – non solo fisica ma anche psichica e sociale – è una paura che ci accomuna tutti. In Italia la terapia del dolore è regolamentata dalla legge del 2010, che rende obbligatoria la rilevazione del dolore da parte dei sanitari e liberalizza l’accesso ai farmaci antidolorifici per i pazienti terminali.
Al centro rimane la volontà del paziente e dei suoi famigliari, fino alla fine. Nell’imminenza della morte è possibile avere accesso alla sedazione palliativa profonda, ovvero la somministrazione di farmaci sedativi per ridurre il livello di coscienza fino ad annullarla.
“Se questo referendum diventerà legge – conclude Gulmini -, ancora una volta, come è successo con le Dat, avremo in mano uno strumento molto delicato. Dovremo sapere molto bene come aiutare gli altri a usarlo.”