Nonostante la fase acuta della pandemia sembri essersi esaurita, la parola “cura”, comparsa assai di frequente all’interno dei vari dibattiti pubblici, continua a fare stabilmente parte del lessico impiegato dalle istituzioni, dai professionisti e dalla società civile, in ambiti e con finalità anche profondamente diversi.
Le modalità con le quali questo “appello alla cura” è avvenuto e tuttora avviene non sono sempre coincidenti, in quanto tale parola è caratterizzata da una polisemia intrinseca, che la rende uno degli essentially contested concepts più rilevanti della contemporaneità e fa sì che ci si richiami ad essa non solo nel campo che più direttamente vi pare correlato, ossia quello sanitario, ma anche all’interno di svariati altri ambiti, come l’etica, l’economia, il diritto, così come in relazione alla tutela dell’ambiente.
Come già in relazione ad altri processi, sembra che nel caso della cura la pandemia abbia funzionato da acceleratore di una tendenza in atto, quella relativa alla sua politicizzazione, condotta almeno a partire dagli anni Settanta del Novecento, principalmente – seppur non in modo esclusivo – all’interno della teoria femminista (tanto che al riguardo esiste una prospettiva teorica specifica, denominata appunto Etica della cura).
Si tratta di un processo, diretto alla realizzazione di una Caring Democracy, che di recente ha portato a fare della cura la base di un vero e proprio “manifesto politico” (il Manifesto della cura), che assume come prioritaria la riduzione delle asimmetrie di potere e la tutela dei diritti di tutte e tutti.
Prima di prendere brevemente in considerazione alcuni degli aspetti che caratterizzano questa svolta teorica e politica, può essere utile sciogliere certe ambiguità di fondo relative alla parola cura, per dipanare l’intreccio tra i significati che attualmente sono più diffusi.
In tal modo, sarà possibile comprendere meglio le ragioni per le quali, nonostante la perdurante crisi in cui sembra versare –principalmente a causa dell’ideologia e delle politiche neoliberali – da più parti si continui a guardare con fiducia alla cura, intesa come parola-chiave del progetto politico che si vorrebbe caratterizzasse un futuro assai prossimo. Un progetto che si considera rivoluzionario, in ragione della sua radicalità.
La distinzione tra cura e “prendersi cura”
Cura è una parola antica, caratterizzata – come s’è anticipato – da una rilevante complessità semantica, che può essere considerata espressione (anche) della sua storia. Basti pensare che la riflessione filosofica su di essa risale all’antichità, dove compare principalmente come “cura di sé” (a partire dall’epimeleisthai socratico), secondo un’accezione che, nel corso del Novecento, verrà ripresa anche da Michel Foucault.
Quando si riflette sulla cura, è bene distinguere la cura in senso stretto (ben espressa dall’inglese to cure) da quella in senso ampio (to care). Con la prima accezione, diffusa soprattutto in ambito medico, si fa riferimento all’aspetto clinico; essa diviene dunque un sinonimo di “terapia”. Con la seconda, si richiama invece la sollecitudine, l’interesse premuroso, che può evocare anche l’inquietudine e la preoccupazione.
In breve, se con la cure viene in rilievo una malattia (e la cura è, di norma, un farmaco), con la care è la persona ad acquisire centralità: l’attenzione è rivolta al suo benessere completo, dunque anche alla dimensione relazionale dell’esistenza.
Nel corso della pandemia, è stata chiara la centralità di entrambe le declinazioni del termine. Se era necessario curare nel modo più efficace possibile il maggior numero di persone – anche in ragione del fatto che era la loro stessa vita ad essere messa in pericolo – al contempo era altrettanto fondamentale agire sul piano non strettamente medico, con sollecitudine, appunto.
Basti pensare alle persone anziane e, in particolare, a quelle che erano ospitate all’interno delle Residenze sanitarie assistenziali (le ormai tristemente note Rsa) e socioassistenziali, esposte al contagio in modo esponenziale – anche – in ragione della loro maggiore fragilità. Se, in relazione a tali soggetti, il profilo della cure ha acquisito toni drammatici, non meno rilevante è stato quello della care.
Come si ricorderà, queste persone si erano trovate in una situazione di isolamento, confinamento e finanche di “abbandono”, secondo l’analisi e la denuncia effettuata da Amnesty International in relazione a quanto accaduto in Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia.
Ebbene, sarebbe improprio ascrivere alla cure le misure di contrasto all’isolamento intraprese (dalle – poche – stanze degli abbracci all’utilizzo delle nuove tecnologie per facilitare i contatti, seppure a distanza). Piuttosto, là dove erano dirette a favorire il recupero della dimensione relazionale, ponendo al centro la soggettività e i bisogni di tali persone, gli interventi effettuati sono riconducibili alla care.
In controluce si intravede, infatti, l’“inquieta sollecitudine” con cui la cura viene identificata, anche a livello filosofico. Essa non è altro che la pratica specifica di attenzione a chi si trovi in una condizione di bisogno (compresi se stessi, in quella che viene a delinearsi come una cura di sé, ossia alla propria conservazione), la quale a propria volta si accompagna all’accezione di cura come condizione primaria dell’esistenza (che, come ci ricorda la filosofa Luigina Mortari, “protegge la vita e coltiva le possibilità di esistere”), cui ha notoriamente rinviato anche il filosofo Martin Heidegger, riproponendo l’antico mito di Cura.
La cura secondo la teoria femminista
Per comprendere meglio la polisemia della parola cura e, dunque, la sua complessità, è però necessario considerare un’accezione ulteriore del termine, quella politica, di cui siamo debitori principalmente alla teoria femminista e, in particolare, all’Etica della cura di seconda generazione.
Negli anni Novanta del Novecento, Joan Tronto e Berenice Fisher proposero di considerare la cura come “una specie di attività che include tutto ciò che facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro ‘mondo’ in modo da poterci vivere nel modo migliore possibile. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa a sostegno della cura.”
Le autrici furono tra le prime che si riferirono alla cura per proporre una lettura filosofica dell’esperienza umana, finalizzata a “dare voce” ad un’urgenza politica: elaborare azioni in grado di favorire la convivenza democratica, a partire dal riconoscimento e dalla partecipazione di coloro che – mutuando il linguaggio delle teorie critiche – sono tradizionalmente esclusi, emarginati, oppressi.
In questo “nuovo ordine”, a tali soggetti viene finalmente garantito il “diritto di presenza” nello spazio pubblico, unitamente a quello di incidere sulle politiche. È, questa, la Caring Democracy: una proposta rivoluzionaria perché, appunto, ponendo al centro dell’azione politica la care, consente di fare emergere soggetti e temi “altri”. Ma quali soggetti? E quali temi?
Verso una Caring Democracy?
L’appello alla Caring Democracy induce a volgere attenzione a soggetti e questioni che possono essere considerati “nuovi”, non perché prima non esistessero, ma perché, a causa della svalutazione sociale che storicamente li ha riguardati, sono stati ritenuti “inessenziali”.
Tra i soggetti, acquistano visibilità le persone tradizionalmente considerate marginali, ossia coloro che non incarnano le caratteristiche del “soggetto paradigmatico”, altrimenti noto come “soggetto liberale”: l’individuo maschio, adulto, possidente, occidentale, eterosessuale, normoabile, etc.
All’interno della Caring Democracy, a tali persone viene invece garantita la possibilità di avere voce nello spazio pubblico e di accedere alla “tavola delle trattative” in cui vengono fissate le regole del gioco democratico.
Tale “allargamento” dello sguardo fa sì che, sul piano dei temi, assumano centralità questioni che, in base alla prospettiva ancora dominante, di norma vengono considerate secondarie, in quanto vengono assegnate alla sfera privata (che a lungo è stata considerata uno spazio che esula dall’applicazione dei principi di giustizia).
Gli esempi che potrebbero essere fatti al riguardo sono davvero molti, ma la pandemia ha reso visibili alcuni di essi in modo più marcato, in genere acuendoli. Si pensi all’arcipelago di questioni relative al lavoro di cura (tanto retribuito, quanto informale), al complesso intreccio tra razzismo e sessismo che riguarda il lavoro di cura migrante, o alla difficile conciliazione familiare, ove il divario di genere, già assai marcato, è stato inasprito dalla pandemia stessa, anche a causa dello smart working.
Per altro verso, durante la pandemia, l’attenzione alla dimensione politica della care ha permesso di porre al centro del dibattito pubblico una questione assai rilevante, che riguarda vari ordinamenti, non ultimo quello italiano.
La crisi sociosanitaria ha infatti costretto a confrontarsi con lo strutturale sotto-finanziamento del comparto socio-sanitario e con la sua progressiva privatizzazione: entrambi i processi, espressione di una gestione neoliberale del Welfare State ormai decennale e strutturale, hanno infatti concorso ad esacerbare la condizione di vulnerabilità degli individui.
Ebbene, è proprio l’appello alla care ad avere rilanciato la necessità di ripensare il sistema di welfare corrente. Invero, il richiamo alla necessità di superare il welfare familistico ed attuare un modello territoriale e di prossimità, così come quello diretto a ridefinire il rapporto pubblico-privato nella “presa in carico” e a garantire il diritto alla de-istituzionalizzazione e alla scelta relativa al “dove” e “con chi” vivere, assumono senso e diventano possibili unicamente ove si dia voce alle persone escluse e le si mettano in condizione di esprimere le loro reali esigenze.
A questo riguardo, è celebre il motto dell’attivismo delle persone con disabilità: “nulla su di noi, senza di noi”.
Ancora, non è estranea alla Caring Democracy l’attenzione alla redistribuzione delle risorse globali, né quella alla transizione ecologica, che possono essere considerate espressione della cura per la natura e, in senso ancor più ampio, della cura del mondo, come ci ha ricordato la filosofa Elena Pulcini – scomparsa proprio a causa del Covid-19 – con le sue acute riflessioni sul tema.
Né si può trascurare come richiamarsi alla cura imponga di considerare fondamentale anche il richiamo allo sviluppo sostenibile, che tra l’altro costituisce uno degli obiettivi dell’Agenda ONU 2030.
Ponendo al centro dell’attenzione la multidimensionalità della diseguaglianza, gli squilibri nella distribuzione delle risorse, dei ruoli, delle opportunità e delle capacità, l’appello alla cura offre allora una lettura integrata di questioni che ormai non possono più essere demandate alla casualità e derubricate a semplici “sfortune”, ma divengono finalmente intellegibili come risultato di coincidenze “ben architettate”.
E la cura ci offre non solo la lente per vederle, ma anche gli strumenti per fondare un “nuovo ordine” attuando appunto una vera e propria rivoluzione. Da qui, la diffusa fiducia nella portata trasformativa della cura, diffusasi nel corso della pandemia; essa è divenuta una parola-chiave, avendo acquisito una posizione di rilievo non solo all’interno della riflessione teorica ma, soprattutto, dell’agenda politica.
È, quella posta dalla cura, anche e soprattutto una sfida, che proprio nell’ottica della costitutiva interdipendenza e della sollecitudine reciproca ciascuna e ciascuno è chiamato a cogliere, per rendere quello presente il tempo della cura.