Impossibile mirare alla sostenibilità senza un largo impiego di tecnologia, intesa come strumento in grado di abilitare modelli di comportamento e consumo coerenti e ottimizzare i processi industriali per migliorare la gestione delle risorse.
Il conseguimento dell’obiettivo della sostenibilità ambientale, del resto, necessita che si agisca in maniera profonda anche sul piano della sostenibilità sociale ed economica, e questo richiede un larghissimo uso degli strumenti che il digitale mette a disposizione.
Per conoscere qual è per gli italiani l’impatto delle tecnologie pensate in un’ottica di riduzione degli sprechi e verso una sempre maggiore sostenibilità ambientale, il Digital Transformation Institute (DTI) – Fondazione per la sostenibilità digitale ha elaborato uno studio e commissionato un’indagine a Ipsos (società specializzata in ricerche di mercato).
I risultati della ricerca sono stati illustrati da Stefano Epifani, presidente del DTI, e discussi nel corso del terzo appuntamento di “Smart Environment: impatto delle innovazioni digitali per la sostenibilità”, un webinar tenutosi recentemente.
Agli intervistati sono state poste domande per accertare, in questo ambito, se si tratta di conoscenze vere o solo presunte, quali sono le priorità che come cittadini e utenti individuano nel campo ambientale e tecnologico e come la loro conoscenza teorica delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie si traduce poi nelle concrete azioni quotidiane.
Le due facce dell’approccio italiano all’Information Technology
L’analisi mostra un’ambivalenza degli italiani nella percezione e nell’approccio verso le nuove tecnologie (Information Technology, IT), restituendoci la fotografia di una larga fetta di utenti che ne conosce le potenzialità, ma si mostra poco attiva, e talvolta diffidente, nei confronti del loro utilizzo.
In realtà, secondo Epifani, le cause sono da ricercare a monte, nella scarsa consapevolezza sia della dimensione complessa e sistemica del problema ambientale, sia delle opportunità offerte dall’uso dell’IT per affrontarlo.
Questa diffusa conoscenza degli strumenti digitali a cui non consegue un effettivo uso nelle azioni quotidiane sembra essere più una forma di resistenza ideologica nei confronti dell’innovazione offerta dal digitale, che frutto di mancanza di conoscenza dell’impatto, positivo o negativo, che le tecnologie digitali possono generare.
Coscienti del problema ma pigri e talvolta prevenuti verso le nuove tecnologie
Infatti, siamo ormai in presenza di una diffusa coscienza ambientale della crisi climatica in atto, tanto che per circa tre italiani su quattro si tratta di un problema da affrontare subito, e solo per una minima percentuale (che si aggira fra lo 0,5% e l’1,6%) rappresenta un falso problema.
Ma questa sorta di prevenzione ideologica opera in modo ancor più evidente laddove, a fronte di un diffuso livello di conoscenza di strumenti digitali utili per conseguire una migliore sostenibilità ambientale, solo una minima parte degli intervistati ammetta di farne uso.
Su questo aspetto è stato impostato un quesito specifico rispetto a tre grandi ambiti quali: sprechi alimentari, gestione di rifiuti e riduzione dei consumi.
Questi macro-indicatori confermano che la conoscenza degli strumenti digitali (che va da un terzo alla metà della popolazione) spesso non si traduce nel loro utilizzo effettivo e regolare, utilizzo che, infatti, si attesta su quote percentuali molto più basse.
Se si analizzano in dettaglio quali strumenti vengono usati, si rileva che alle prime tre posizioni di questa speciale classifica si attestano applicazioni di domotica che rendono la vita più facile, e solo come effetto secondario influiscono in modo positivo e tangibile sull’ambiente.
A fronte di ciò, le applicazioni che consentirebbero un più rilevante impatto positivo e diretto in termini di sostenibilità ambientale, sono in posizioni successive e denotano una bassa diffusione in termini percentuali.
Questo nonostante la netta maggioranza del campione ritenga che la tecnologia digitale consenta una migliore gestione dei rifiuti con positive ricadute sull’ambiente, al punto che su quattro intervistati due hanno risposto che incide in modo “abbastanza positivo”, uno “molto positivo” e solamente uno “poco o per nulla positivo”.
Incrociando i risultati dei quesiti posti, l’analisi mostra una quasi perfetta sovrapponibilità fra chi percepisce cambiamento climatico e inquinamento come un problema prioritario (70,9% – vedi tabella sopra) e chi ritiene che la tecnologia sia un’opportunità per la gestione dei rifiuti (70,2% – vedi tabella sotto).
Inoltre, ribaltando la prospettiva, secondo Epifani si nota anche una speculare correlazione statistica tra chi ritiene che cambiamento climatico e inquinamento siano problemi secondari (54,2% – vedi tabella sopra) e chi percepisce la tecnologia come minaccia (46,9% – vedi tabella sotto).
Ambientalisti sì, ma con le emissioni degli altri
“Siamo tutti bravi a essere ‘sostenibili’ con le emissioni degli altri, cioè molto orientati a scelte ambientaliste estreme finché non toccano noi stessi, tanto che non facciamo neppure uso degli strumenti che abbiamo a disposizione per abbattere il nostro impatto sull’ambiente”, afferma Epifani.
Osservato da altra prospettiva, si comprende come per la maggioranza degli utenti vi è coscienza che esista un’offerta di soluzioni tecnologiche al problema della sostenibilità ambientale, ma non al punto da far maturare una consapevolezza che abbia quella forza sufficiente a cambiare i comportamenti.
Anche nel mondo produttivo siamo tra gli ultimi in Europa in ambito digitale
E questo non avviene solo a livello di singoli e privati cittadini, perché c’è un numero enorme di piccole e medie imprese (Pmi), la grande maggioranza del tessuto produttivo italiano, che non sta lavorando sulle proprie competenze perché non ha consapevolezza di doverlo fare.
“È come se dovessimo imparare a scalare l’Everest per salvarci dal Diluvio universale, e non lo facessimo perché non abbiamo capito o non crediamo che arriverà davvero. L’Information Technology è una sorta di Diluvio universale bivalente, nel senso che può salvarci ma può anche affossarci in funzione di come verrà affrontato e gestito”, dice Epifani.
Che la situazione italiana sia drammatica ce lo conferma un indicatore come il Digital Economy and Society Index (DESI), che traccia l’indice di performance digitale delle diverse nazioni dell’Unione europea, nel quale veniamo collocati di volta in volta tra il penultimo e il quartultimo posto (come nell’ultima rilevazione avvenuta nel 2020).
“Questo ritardo è un peso che ogni singola Pmi ha sulle spalle ogni volta che deve agire sul mercato, non solo nel rapporto con clienti e fornitori, ma anche nell’interazione con l’ecosistema della ricerca e sviluppo di soluzioni ai problemi.”
Occorre un cambio di paradigma urgente per colmare il divario
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), la più ingente iniezione di capitali dai tempi del piano Marshall, potrebbe dare una spinta considerevole per colmare questo gap. Al momento, però, il Pnrr è un insieme di progetti che bisogna trasformare in un programma organico coerente nel quale il digitale assume per la sostenibilità un ruolo centrale.
In altri termini, anche qui urge un cambio di paradigma.
“Il digitale non va più visto in funzione meramente additiva. Non importa quanti punti di Prodotto interno lordo (Pil) produca il digitale ma – secondo Epifani – bisogna ragionare su quanti punti di Pil verranno persi se non investiamo prontamente sul digitale in modo corretto.
Se l’innovazione viene usata come leva di competitività, il plusvalore generato dall’innovazione può e deve essere in parte utilizzato per compensare chi da questa innovazione è stato penalizzato.”
Se invece, come ci insegna la storia di questi anni, per pigrizia o resistenze ideologiche blocchiamo l’innovazione, perderemo competitività e ci troveremo costretti “con meno risorse, a combattere battaglie di retroguardia, tutelando rendite di posizione di categoria senza affrontare e risolvere il problema”, avverte Epifani.
In definitiva, la sostenibilità, nella sua triplice dimensione economica, sociale e ambientale, va vista da una parte come elemento che può essere raggiunto grazie alla tecnologia, ma dall’altra anche come strumento per guidare la tecnologia nei suoi sviluppi e nelle grandi scelte politiche che ci attendono nei prossimi anni.