Gli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per la scuola si articolano in due componenti: il potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione dal nido all’università da un lato, il finanziamento della ricerca e una più efficace collaborazione con il mondo imprenditoriale dall’altro.
“Con il Pnrr – ha dichiarato ad Agenda 17 Sergio Cicatelli, docente di Diritto scolastico presso la Pontificia facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium – non mi aspetto una riforma della scuola né mi pare sia in programma. Tutto sommato sarebbe utile se si riuscisse a far funzionare meglio la scuola che c’è.
Attualmente i problemi principali iniziano nella secondaria e non sono problemi strutturali: abbiamo a che fare con l’adolescenza e la preadolescenza, che pongono esigenze di diverso tipo e che richiedono da parte degli insegnanti sollecitazioni diverse, senza pretendere che intervenendo in una sola direzione, ad esempio prolungando l’obbligo, si risolvano i problemi.
Per produrre un rendimento migliore bisogna puntare su interventi di carattere qualitativo. Investire su una grande riforma del sistema scolastico non conviene, perché è impossibile mettere d’accordo una maggioranza su tutte le sue articolazioni. La riforma della scuola è come un mosaico in cui finora ogni ministro ha voluto mettere la propria tessera: il guaio è che, facendolo, ha spostato le tessere altrui rovinando il disegno d’insieme, che non è più coerente.
Una riforma strutturale richiede invece un progetto culturale e una forte condivisione. Siamo un Paese politicamente molto frammentato, non possiamo quindi aspettarci di riuscire a fare una cosa del genere. Si tratta piuttosto di rendere il meno incoerenti possibili gli interventi che si sono succeduti.”
Formazione degli insegnanti e prolungamento del tempo scolastico
Rafforzare l’offerta formativa significa prima di tutto migliorare le competenze dei docenti, dal reclutamento alla formazione obbligatoria. La riforma inserita nel Pnrr punta a un sistema di formazione di qualità per tutto il personale scolastico, con piena attuazione prevista per il 2025.
“La formazione degli insegnanti – specifica ad Agenda17 Tamara Zappaterra, docente di Didattica e pedagogia speciale presso l’Università di Ferrara – è al centro del dibattito pedagogico da vent’anni. Il Pnrr riconosce che teorie e metodologie didattiche nel lavoro quotidiano delle scuole necessitano di formazione, rigore scientifico, studio e ricerca.
Siamo consapevoli che non sempre i nostri insegnanti sono preparati a lavorare in modo personalizzato, che sia capace di indirizzare i giovani verso il mondo del lavoro mettendo accanto ai contenuti teorici anche l’acquisizione di competenze e abilità e il raggiungimento di traguardi educativi adeguati alle capacità del singolo studente.”
“È importante – concorda Cicatelli – puntare sul fattore umano, a partire dalla qualità degli insegnanti. In Finlandia l’innalzamento dell’obbligo si inserisce in un contesto nel quale gli insegnanti godono di un prestigio sociale di gran lunga superiore a quello degli insegnanti italiani: c’è il riconoscimento del valore della loro competenza professionale sia in termini economici sia in termini di percezione sociale. Riuscire quindi a fare una riforma di sistema senza premesse di questo tipo mi sembra piuttosto difficile.”
Oltre a ciò, il Pnrr prevede interventi come l’estensione del tempo pieno e il potenziamento delle infrastrutture per lo sport, utili non solo a diversificare l’offerta formativa, ma anche a contrastare la dispersione, garantire l’inclusione sociale, scoprire e orientare le attitudini personali di ciascuno.
Dai dati riportati nel Piano, emerge ad esempio che il 28,2% delle scuole non dispone di una palestra, percentuale che nelle aree meno sviluppate del Paese sale a 38,4%.
“Sono misure efficaci – dichiara ad Agenda 17 Raffaella Cascioli, ricercatrice Istat e autrice dell’audizione sulla dispersione scolastica – soprattutto per le realtà territoriali difficili. Il tempo scuola infatti deve essere ampliato e utilizzato bene, anche potenziando mense e palestre, per accogliere i ragazzi che provengono da situazioni socio-familiari e territoriali più difficili ma anche per favorire una cultura dell’integrazione, abituando i giovani a condividere attività diverse.
Ci sono tante possibilità di intervento, che permettono di non stravolgere con riforme troppo ampie il sistema scolastico nel suo insieme.”
Il tasso di abbandono è più alto tra gli stranieri: serve una cultura dell’integrazione
L’abbandono degli studi tra gli stranieri è molto superiore rispetto a quello degli italiani, con percentuali, nel 2020, rispettivamente di 35,4% e 11%, soprattutto tra chi arriva in Italia in età più avanzata.
“Dobbiamo fare i conti – osserva Cicatelli – con una tradizione culturale che non si cambia per decreto. Una più marcata presenza straniera in Italia è esplosa negli ultimi trent’anni a livello sia sociale sia scolastico: è impensabile che in così poco tempo possa cambiare la mentalità di un intero sistema.”
“Da questo punto di vista – concorda Francesco Schino, docente di Sociologia del benessere dell’infanzia presso l’Università di Ferrara – siamo una società ancora in cammino. La cultura cambia molto lentamente e se per noi dagli anni Novanta sono passati già trent’anni, per i cambiamenti culturali non è passato nulla. Di fatto, non siamo ancora pronti alla vera integrazione.
La prospettiva cui tendere è l’intercultura, che parte dal presupposto di creare una società capace di sintesi tra le differenze. Anche nella quotidianità, invece, continuiamo a parlare di tolleranza e accoglienza: sono termini che a me non piacciono perché mantengono le distanze, portandoci ad assumere uno sguardo dall’alto. Nella società interculturale invece le varie tradizioni riescono pacificamente a unirsi e formare una nuova forma di vita collettiva.
Forse resterà solo un obiettivo, ma perlomeno dobbiamo sapere verso quale modello di società vogliamo e dobbiamo andare. Non dimentichiamoci che siamo la nazione che ha concretizzato il concetto di integrazione proprio a partire dalla scuola. Nel 1977 l’Italia è stato infatti il primo Paese al Mondo a inserire gli studenti disabili nelle scuole normali.
Oggi si preferisce parlare di inclusione: la questione è complessa, ma in linea teorica nemmeno questo termine è corretto perché implica ‘mettere all’interno’ di un sistema preesistente, senza margini di libertà. Integrazione e inclusione vanno invece insieme: integrare e includere gli altri con la libertà di mantenere il mondo simbolico ed emotivo da cui provengono.”
“Per fare questo – aggiunge Cascioli – il prolungamento del tempo scuola, la diversificazione dell’offerta formativa e un’adeguata formazione dei docenti aiutano non solo i ragazzi stranieri provenienti da situazioni di particolare disagio, ma anche gli studenti italiani ad aprirsi a una mentalità di inclusione e integrazione.”
“Gli studenti stranieri – aggiunge Cicatelli – inevitabilmente hanno difficoltà scolastiche, soprattutto se arrivano in Italia a quindici anni o più. Quali strategie adottare? Dobbiamo riuscire a produrre un’offerta flessibile che sappia intercettare le esigenze di tutti gli studenti soprattutto potenziando la formazione professionale, che in Italia è estremamente carente.”
L’inserimento nel mondo del lavoro: l’importanza di una formazione professionale capillare sul territorio
La mancanza di opportunità educative aumenta le difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro e guida verso impieghi solitamente meno qualificati e poco retribuiti. Se il 53,6% dei ragazzi che hanno raggiunto il titolo secondario superiore è occupato dopo pochi anni dalla fine degli studi, per gli Early Leavers from Education and Training (ELET) il dato cala a 35,4%, nonostante la disponibilità al lavoro sia tra questi ultimi significativamente maggiore.
Come ricorda Zappaterra “l’obiettivo 4 dell’Agenda 2030 prevede, tra i vari punti, l’aumento del numero di giovani e adulti con competenze specifiche anche tecniche e professionali. Se queste competenze, volte alla gestione di diversità e vulnerabilità legate ai bisogni tipici delle diverse età degli alunni ma anche a disabilità o disturbi dell’apprendimento, possono essere appannaggio dei docenti delle scuole primarie e per l’infanzia, non è così per i docenti delle scuole secondarie, il cui curriculum formativo è centrato quasi esclusivamente nell’ambito delle discipline oggetto di insegnamento.
Ogni insegnante ha bisogno di una formazione ad hoc che deve diventare sistema e, per farlo, è necessaria una trasformazione profonda del sistema educativo in grado di inserire la formazione delle nuove generazioni in un quadro che contempli in maniera omogenea formazione scolastica, formazione professionale e passerelle tra i due percorsi.”
Ciò significa una maggiore progettualità in ambito formativo, che permetta quindi all’allievo di scoprire il proprio talento e costruire il proprio progetto di vita attraverso la frequenza alla scuola secondaria superiore oppure scegliendo un percorso di formazione professionale.
“Il vantaggio della formazione professionale – continua Cicatelli – è una didattica molto più partecipata e concreta che a scuola normalmente non è praticata. Neanche gli istituti professionali riescono a supplire alla domanda di formazione professionale, oltre al fatto che le Regioni vanno in ordine sparso con alcune che offrono formazione molto valida, come il Trentino e l’Emilia Romagna, e altre che hanno fatto la scelta miope di non svolgerla e scaricarla sugli istituti.
Se ci fosse un sistema di istruzione e formazione professionale presente in maniera capillare ovunque, riusciremmo probabilmente a recuperare almeno un 10% di studenti che si perdono per vari motivi. Infatti, più diversifichiamo l’offerta formativa, soprattutto nell’adolescenza, più è probabile che riusciamo a intercettare le esigenze e le capacità di tutti gli studenti e che poi ritornano utili all’intera società.”
Rispetto all’Europa, la quota di occupati tra i giovani che abbandonano la scuola è significativamente inferiore. Nel 2019 in Italia è occupato un giovane ELET su tre (35,4%), mentre la media nell’Unione europea è del 46,6%. Anche qui, inoltre, i dati peggiorano al Sud, dove il 22,7% di occupati si scontra con il 49,5% e il 46,9% del Nord e del Centro.
“In Italia – conclude Cascioli – chi vuole fare un percorso più corto del quinquennio può usufruire dei percorsi triennali e quadriennali di Istruzione e formazione professionale (Iefp), cui ho accennato nell’audizione dell’Istituto nazionale di statistica (Istat) all’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. I dati dimostrano come vi confluiscono molti ragazzi stranieri, o disabili, o ancora giovani che hanno abbandonato la scuola ma tornano a studiare per acquisire un titolo.
È un’offerta formativa importante e inclusiva, tuttavia rimangono diffusi soprattutto al Nord.
Ciò può avere diverse cause, tra le quali sembrano giocare un ruolo determinante il diverso tessuto produttivo, quindi un diverso livello di domanda di profili professionali formati dai percorsi Iefp, e le diverse risorse impiegate dalle Regioni che devono finanziare tali percorsi.
Infine, accanto agli Iefp è fondamentale che anche i percorsi quinquennali degli istituti professionali e tecnici si integrino con le imprese. C’è molto da fare oltre l’alternanza scuola-lavoro, perché più i ragazzi riescono a uscire dai banchi di scuola e fare esperienza presso le imprese, più saranno preparati al mondo del lavoro.”