Dopo due anni si riempiono di nuovo – venerdì 24 settembre – le piazze di tutto il Mondo per lo sciopero globale dei Fridays for Future. Due anni in cui ha imperversato la pandemia, che ha piegato a sé l’attenzione del Mondo.
Ma alla catastrofe ecologica si è continuato sempre a pensare, divisi fra paura e speranza. Un punto di vista certamente fra i più interessanti è quello dell’espressione artistica, perché la sua forza comunicativa e la continua ricerca sui linguaggi sono specchio fedele e laboratorio importante per la comunicazione di questi temi.
Una caso bello e importante e un’ottima occasione di fruizione in questo senso ce li offre il Festival Aperto organizzato dal Teatro Valli a Reggio Emilia.
The End Of The World apre il festival della speranza
Con The End Of The World, l’opera multimediale del pianista ucraino Lubomyr Melnyk e del collettivo torinese Spime.IM, il 18 settembre si è inaugurata al teatro Valli la tredicesima edizione del Festival Aperto di Reggio Emilia.
È l’autore stesso a dichiarare esplicitamente sul proscenio prima dell’inizio dello spettacolo che l’intenzione è quella di destare nello spettatore una coscienza che porti a contrastare il pericolo estremo che dà il titolo all’opera. Il pericolo dell’incombente disastro ecologico, “messo in scena” a partire da una raccolta di big data rielaborati in suoni e immagini.
Spesso la musica a programma, come l’opera a tema, paga un tributo molto alto alla qualità creativa in favore della chiarezza espositiva dell’argomento scelto.
In questo caso non è affatto così. Lo spettatore è coinvolto in un’ora e mezzo di spettacolo multimediale bello e intenso, in cui violoncello (Julia Kent), pianoforte e strumenti elettronici per interazione audiovisiva si fondono per articolare una drammaturgia che, pur su una tessitura molto chiara del tema esposto, è sempre tesa ed emozionante.
Anche la tecnologia, fatto rimarchevole per chi si occupa di arte e scienza applicata, trova un proprio equilibrio: nessuna esibizione di apparati ormai privi di appeal nell’immaginario tecnologico, e una matura consapevolezza nell’utilizzare la grande capacità di calcolo e la potenza manipolatoria dei device oggi disponibili.
Dallo sconforto alla speranza. Il cammino della consapevolezza
La performance multimediale si articola in tre parti, in un ideale percorso di caduta, rammemorazione delle origini della Natura e ripresa della speranza. Non a caso l’opera apre il programma del Festival di quest’anno che titola “Principio speranza”.
Il primo tempo si apre su una natura stanca, colta nei colori del bosco d’autunno. La musica del pianoforte e del violoncello evoca una tristezza liquida che modula il disfarsi della foresta, le cui immagini sono proiettate in rapida sequenza sul grande schermo che occupa tutto il fondale.
La scomparsa della foresta è dapprima solo e quasi un disturbo percettivo alla periferia della retina dello spettatore, al bordo dell’immagine: colori e forme naturali si sfanno in pixel sul perimetro dello schermo. Poi, in un crescendo di live electronic che invade e sovrasta lo spazio musicale degli strumenti classici, incedendo per scoppi e accelerazioni, l’immagine della Natura è ormai totalmente sgranata e ricomposta in macchia di colore, ma la sua matrice ora però sono ciminiere e strutture artificiali.
Alla fine della prima parte, della musica resta solamente rumore, e del rumore la matrice numerica, tracce di oscilloscopio, rappresentazioni grafiche di frequenze proiettate sullo schermo. Fino alla compressione ultima delle frequenze sinusoidali che precede il silenzio.
Il secondo tempo apre con il violoncello, da cui riemerge un suono cupo e profondo, che progressivamente il live campiona e rielabora a ricostruire la tessitura sonora di un discorso musicale. Fino a che nasce e si spande la musica del pianoforte di Melnyk. È la Natura che racconta il proprio Sé originale, il dono primigenio, le cui parole si proiettano sul grande schermo come un’orazione.
Infine, nel dissolversi del live in un vortice di suoni e immagini informi ma caldamente magmatici, si alza la voce umana. Una voce femminile alta e solenne a evocare la speranza.
Arte e scienza si incontrano nel ripensare la Natura
Quanto il tema sia sentito, e addirittura pervasivo nell’arte contemporanea, lo dimostra il programma stesso del Festival, nel quale proprio il bosco come luogo archetipico di incontro fra l’atavica cognizione della natura e la centralità della sua funzione biologica per la vita del Pianeta è al centro di altre opere.
Diversissimi per tipologia e mezzi espressivi, questi lavori si incardinano comunque coscientemente su un tema che condensa in sé paure e speranze dell’immaginario con cui guardiamo alla crisi ecologica.
È il caso dell’installazione “côté cour/côté jardin” di Eva Jospin aperta fino a dicembre nel Ridotto del Teatro Valli. Jospin, nella cui produzione artistica la foresta occupa un posto centrale, propone una “scena doppia”: da un lato la scena teatrale, dall’altro una fitta foresta misteriosa.
In “La notte è il mio giorno preferito” Annamaria Ajmone ci porta, il 10 ottobre, in una foresta né vergine né idealizzata, ma tecno naturale, che include e trasforma i segni lasciati dai propri abitanti. Lo spettacolo di danza prende lo spunto dalla pratica, delineata da Baptiste Morizot nel saggio Sur la piste animale, del tracciamento filosofico: l’esercizio di seguire le piste attraversate dagli animali selvatici per “prenderne a prestito” lo sguardo e intuirne la possibilità di azione.