Dal 1 agosto la Finlandia ha introdotto l’obbligo scolastico fino a diciotto anni. Su Eurydice, portale della Commissione europea dedicato ai sistemi educativi, si legge che tale riforma “alzerà il livello di educazione e competenze, colmerà i divari di apprendimento, migliorerà l’uguaglianza e la non discriminazione e migliorerà il benessere dei bambini e dei giovani.”
Analizzando i dati riportati in una recente audizione dell’Istituto nazionale di statistica (Istat) all’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e quelli del report del Ministero dell’istruzione sulla dispersione scolastica in Italia, abbiamo cercato di capire se una decisione di questo tipo potrebbe essere utile anche nel nostro Paese per contrastare l’abbandono e ridurre le disuguaglianze.
Istruzione e formazione inclusive e di qualità sono riconosciute come diritti fondamentali per tutti e per tutto l’arco della vita anche dal Consiglio europeo, che, in una Risoluzione dello scorso febbraio, include tra le priorità strategiche di intervento anche il contrasto all’abbandono scolastico.
L’abbandono è però un fenomeno complesso, le cui cause sono molteplici. Per questo è necessario contestualizzare le possibili soluzioni che i diversi Paesi possono adottare, pur mantenendo quello “scambio di buone pratiche” tra gli Stati membri che lo stesso Consiglio europeo riconosce come elemento positivo per una cooperazione verso obiettivi strategici comuni.
Il solo aumento dell’obbligo scolastico non basta
Prendendo in considerazione, secondo le linee della Strategia Europa 2020, le percentuali dei cosiddetti Early Leavers from Education and Training (ELET), l’Italia si colloca tra i Paesi con i peggiori risultati: i giovani tra diciotto e ventiquattro anni che nel 2020 possedevano al massimo un titolo secondario inferiore ed erano fuori dal sistema di istruzione e formazione, erano il 13,1% (543mila casi) contro la media dell’Unione europea di 9,9%, molto lontani dal target europeo che per il 2030 è del 9%.
A caratterizzare lo scenario italiano sono prima di tutto i divari territoriali. Nel 2020, l’abbandono prima della fine della scuola secondaria superiore o del conseguimento di una qualifica professionale di durata almeno triennale, è stato del 16,3% nel Mezzogiorno, dell’11% al Nord e dell’11,5% al Centro, con forti differenze regionali che vedono tra le posizioni peggiori Sicilia, Campania, Calabria e Puglia.
“Anzitutto – afferma ad Agenda 17 Raffaella Cascioli, ricercatrice Istat e autrice dell’audizione sulla dispersione scolastica – deve essere chiaro il quadro generale. I dati ci mostrano che il contesto socio-famigliare e quello territoriale sono i fattori più rilevanti nella dispersione scolastica in Italia. Se infatti il territorio riesce a supplire al disagio della famiglia, con offerte culturali e maggiori capacità di integrazione nel tessuto relazionale e sociale, è più facile che i ragazzi crescano senza disperdersi scolasticamente.
Una volta chiaro questo, si può iniziare a lavorare partendo da percorsi formativi che incontrino i bisogni dei giovani. Significa offrire percorsi alternativi, soprattutto per quelli che non possono o non vogliono stare nei banchi di scuola a lungo ma vogliono comunque acquisire competenze utili per entrare nel mondo del lavoro. Aumentare l’obbligo scolastico potrebbe essere utile per aumentare i livelli di conoscenze e competenze, ma non per combattere la dispersione scolastica così come la osserviamo in Italia, dove infatti i primi abbandoni avvengono già negli anni di obbligo.”
“Il punto – dichiara ad Agenda 17 Sergio Cicatelli, docente di Diritto scolastico presso la Pontificia facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium – è cosa interessa a noi, cioè l’apprendimento effettivo degli studenti, e non un dato puramente formale. Se un ragazzo rimane a scuola per dieci o più anni ma poi non ottiene i risultati e le competenze previste, l’indicatore che ne risulta è fasullo. Dobbiamo inoltre ricordare la cosiddetta ‘dispersione implicita’, cioè il fenomeno che riguarda i giovani in possesso di un diploma di maturità ma che sono analfabeti funzionali.
Il caso della Finlandia è indicativo: fino a pochi anni fa era tra i Paesi con l’obbligo più corto perché la scuola iniziava a sette anni, tuttavia otteneva risultati scolastici che nelle comparazioni internazionali erano di eccellenza. È vero che negli anni la tendenza è stata di aumentare la durata dell’obbligo, quindi è sicuramente un indicatore importante, però da solo non basta.”
In Italia l’istruzione è obbligatoria per dieci anni, dai sei ai sedici. C’è però poi anche l’obbligo formativo, cioè il diritto-dovere di frequentare le attività formative fino ai diciotto anni. “Abbiamo già gli strumenti giuridici – specifica Cicatelli – per portare tutti al diploma di maturità o un titolo equivalente. Il problema è che enfatizziamo l’obbligo di istruzione, che nasce con l’obiettivo primario di mettere un argine allo sfruttamento alla manodopera minorile, cioè il divieto di lavorare prima dei sedici anni.
Tuttavia, a sedici anni non posso comunque stipulare un contratto ordinario, al massimo un apprendistato, proprio perché fino ai diciotto devo studiare e allora di fatto l’obbligo c’è, ma in realtà è un diritto-dovere.”
L’abbassamento dell’età scolastica: puntare alla frequenza già dall’asilo nido
Un punto di partenza per contenere la dispersione potrebbe essere l’abbassamento dell’età scolastica. È ormai riconosciuta anche in sede europea l’importanza di potenziare l’educazione e la cura della prima infanzia di buona qualità e a costi sostenibili.
Interventi in tal senso sono previsti anche nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). La Missione 4, dedicata a “Istruzione e ricerca”, parte proprio dal “Piano per gli asili nido e scuole dell’infanzia e servizi di educazione e cura della prima infanzia”.
Attualmente l’Italia lavora molto bene nella fascia dai tre ai cinque anni, con servizi diffusi su tutto il territorio e tendenzialmente gratuiti: circa il 95% dei bambini frequenta la scuola dell’infanzia o il primo anno della scuola primaria. Problematico invece è l’inserimento dei bambini da zero a due anni: nel triennio 2018-2020 la partecipazione è stata del 28,2%, con forti differenze territoriali.
“Ormai anche a livello europeo – sottolinea Cascioli – è riconosciuto il ruolo di un precoce inserimento nel percorso educativo e il Pnrr vi ha posto attenzione. Nonostante il miglioramento registrato grazie alle misure statali a sostegno del sistema socio-educativo della prima infanzia e del riequilibrio delle differenze geografiche, ancora tante famiglie in situazione di maggiore vulnerabilità faticano ad accedere ai servizi per la prima infanzia. Ampliare l’offerta e intervenire sui criteri di accesso e sugli oneri a carico degli utenti permetterebbe a tutti bambini un percorso evolutivo altrimenti precluso.”
“La questione da cui partire – specifica Francesco Schino, docente di Sociologia del benessere dell’infanzia presso l’Università di Ferrara – è cosa intendiamo per infanzia. L’Organizzazione delle nazioni unite la estende fino al compimento dei diciotto anni, in Italia gli studi la collocano da zero a cinque o sei anni. Purtroppo però è ancora forte, soprattutto nella politica, l’idea di ‘inutilità dell’infanzia’: la logica economica e finanziaria che tira le fila della nostra esistenza ritiene cioè che essere bambini conti poco nella società perché non producono, anzi costano.
A livello sociologico, invece, molti studi premono perché si consideri l’infanzia una dimensione strutturale nel sistema sociale. Di conseguenza non è importante solo per la socializzazione in vista dell’inserimento nel mondo degli adulti: la vera innovazione è considerarla come un mondo che produce cultura. Si parla in tal senso di ‘riproduzione interpretativa’: i bambini non assorbono passivamente i modelli culturali, ma li riproducono modificandoli.
L’approccio della riproduzione interpretativa si basa sul metodo etnografico, cioè sull’osservazione dei bambini nel loro ambiente naturale, mentre giocano. È nel gioco infatti che portano avanti una cultura dei pari che rende l’infanzia stessa un momento fondamentale di riproduzione e trasmissione culturale. Dobbiamo quindi porci su questa prospettiva: quello che mi chiedo è se i decision maker siano pronti ad accettarla.”
L’abbassamento dell’età di inserimento nel percorso formativo deve quindi avvenire secondo una progressione che conduce, in maniera graduale e coerente con le esigenze delle diverse fasce d’età, dall’infanzia al resto del percorso formativo.
“Se pensiamo all’abbassamento della scolarizzazione – ribadisce Schino – non dobbiamo quindi spostare la scuola primaria a quattro o cinque anni. L’Emilia-Romagna ha centri sperimentali a Modena, Reggio Emilia o Bologna che sono all’avanguardia mondiale, nei quali l’aspetto ludico non è secondario ma è centrale per portare progressivamente il bambino alla fase vera e propria dell’apprendimento scolastico.”
La povertà minorile è anche educativa: l’importanza della crescita emotiva
Un tema fondamentale nel percorso di crescita dei giovani è la povertà educativa, cui lo stesso Ministero dedica particolare attenzione per ridurre il gap tra le diverse aree del Paese e che ancora una volta vede in condizioni di disagio le periferie, le aree montane e il Sud.
Come ricorda Schino, il Fondo delle nazioni unite per l’infanzia (United Nations Children’s Fund, UNICEF) ha definito poveri i bambini “privati delle risorse materiali, spirituali ed emozionali necessarie per sopravvivere, svilupparsi e crescere”.
“In Italia – riflette Schino – quando parliamo di povertà educativa ci limitiamo spesso alla sola questione materiale, che pure è importante. Non dobbiamo però dimenticare le famiglie che non sono in grado di svolgere la loro funzione educativa e formativa privando i bambini del loro mondo emozionale. Non vivere l’infanzia nella pienezza è una povertà educativa che i bambini si portano dietro tutta la vita e noi dobbiamo combatterla.
È importante capire – conclude Schino – che la ricerca è la base per il miglioramento sociale e culturale, nel nostro Paese e ovunque. C’è ancora oggi spesso un divario tra la ricerca e il mondo delle scelte. Pensiamo agli investimenti che l’Italia indirizza all’infanzia: sono molto bassi, anche perché si devono fare i conti con una popolazione sempre più anziana.
È necessaria però la presa in carico da parte della politica dei risultati della ricerca: ci vogliono politiche innovative e attente alle situazioni contingenti. I nostri studi sono un servizio offerto a chi poi ha potere decisionale, sempre nella prospettiva che la formula perfetta non esiste e che le risposte non sono mai definitive, tantomeno nella gestione delle cose umane, ma che dagli errori si può e si deve imparare.” (1. Continua)