A causa del progressivo riscaldamento delle acque, gli ecosistemi e le comunità costiere del Mar Mediterraneo stanno attraversando trasformazioni preoccupanti. Dopo l’allarme di Greenpeace sui pericoli per la biodiversità, anche il WWF ha recentemente pubblicato un rapporto sui principali effetti del cambiamento climatico sui nostri mari.
Fra questi effetti spiccano, anche agli occhi di semplici bagnanti, la proliferazione di meduse e la distruzione delle praterie di Posidonia oceanica, endemica del Mediterraneo.
In entrambi i casi, tra le cause non si può più trascurare l’aumento delle temperature, oltre a inquinamento, sviluppo costiero eccessivo, traffico marittimo e pesca mal gestita.
Tra i mari del Pianeta, il Mare Nostrum è infatti quello che si sta scaldando più velocemente, diventando peraltro sempre più salato. Ridurre la pressione antropica per aumentare la resilienza della biodiversità che rende unico il Mediterraneo non è più una scelta.
Meduse in continua fioritura
C’è chi la chiama “gelificazione del mare” per via della consistenza gelatinosa delle meduse, animale composto per il 96% da acqua che abita i mari del Pianeta da milioni di anni. Un tempo i bloom (fioriture) di meduse, eventi durante i quali le popolazioni si riproducono e aumentano rapidamente di numero, erano fenomeni occasionali.
Ormai invece si verificano ogni anno sia nelle regioni meridionali del Mediterraneo, che stanno vivendo un vero e proprio processo di tropicalizzazione, sia nelle regioni più a nord, che nel frattempo si stanno meridionalizzando. Sono le temperature più elevate dell’acqua a favorire i bloom, non solo in estate, e a rendere i nostri mari più ospitali per specie invasive di meduse provenienti dalle zone tropicali.
La pesca gioca un ruolo non da poco: se una volta le meduse competevano con diverse specie ittiche per il cibo, questo equilibrio è venuto meno a causa della scarsità di molti pesci, effetto di decenni di pesca sfrenata. Per lo stesso motivo scarseggiano anche i predatori di meduse, dai pesci alle tartarughe marine, e si alimenta così un circolo vizioso delle cui conseguenze sono proprio i pescatori a risentire.
“La situazione più eclatante di tutte è nel Golfo di Gabes in Tunisia – dichiara ad Agenda17 Giulia Prato, PhD in ecologia marina e responsabile mare del WWF Italia. – Lì ormai ogni anno, da anni, i pescatori si sono adeguati a pescare meduse, poiché si verificano bloom che durano sempre più a lungo.
Un’altra zona dove sono molto frequenti è la costa ionica. Anche lì si trovano sempre più spesso spiagge invase dalle meduse: è qualcosa che ormai da quasi vent’anni aumenta sempre di più anche come diretta conseguenza del riscaldamento delle acque.”
Le circostanze sono così critiche che si ipotizza di iniziare a proporre le meduse nel settore gastronomico. In Asia questi animali sono fonte di cibo da molto tempo, in Tunisia i pescatori hanno già iniziato a vendere, oltre al pesce, anche queste catture indesiderate, e la moda potrebbe diffondersi presto anche da noi.
“Il primo passo per invertire questo trend è proprio agire sulla pesca – prosegue Prato – nel senso di adottare una pesca più sostenibile con una regolamentazione migliore, perché è proprio la sovra-pesca una delle cause che alimentano questi bloom di meduse. Oltre a trovarsi senza predatori, si nutrono di larve giovanili dei pesci che, crescendo, diventano pesci target della pesca.
Abbiamo quindi un circolo in cui le meduse sono praticamente diventate il predatore apicale. Ripristinare gli stock ittici dei loro predatori tradizionali è sicuramente il primo passo.”
Tra gli altri fattori responsabili della proliferazione di meduse c’è anche lo sversamento di fertilizzanti, una delle principali cause dell’eutrofizzazione delle acque, ovvero la sovrabbondanza di nitrati e fosfati che le rende un ambiente povero di ossigeno, in cui i pesci faticano a sopravvivere ma le meduse riescono ad adattarsi.
“Si deve intervenire anche sull’agricoltura – aggiunge Prato – per esempio preferendo un’agricoltura biologica e riducendo sempre più l’utilizzo dei fertilizzanti. Diciamo che sono tutti cuscinetti che vanno messi, visto che è più difficile intervenire direttamente sul cambiamento climatico.”
Nell’immediato, per tutelare gli effetti indesiderati delle meduse su un altro settore economico – il turismo – c’è chi si sta attrezzando circondando le spiagge con reti per impedire che questi fastidiosi animali urticanti si avvicinino alle coste.
Non solo meduse
“I temi e gli allarmi che pone il report del WWF sono tutti molto reali – spiega ad Agenda17 Michele Mistri, docente di ecologia marina presso l’Università di Ferrara –. La situazione è di grande allarme per il Mediterraneo e non solo: si estende a tutti gli oceani, con effetti che vanno dalla riduzione delle calotte polari alle alte latitudini, fino allo stress sulle barriere coralline a latitudini più basse.”
“Il report si focalizza sulle meduse, ma secondo me avrebbe dovuto focalizzarsi su tutti gli organismi gelatinosi planctonici. – prosegue Mistri – In particolare, l’anno scorso sulle nostre coste c’è stata un’invasione della Mnemiopsis leidyi, volgarmente detta ‘noce di mare’, che è uno ctenoforo, una specie di pallotta trasparente a prima vista simile a una medusa, ma senza l’aspetto urticante.”
L’insediamento di una specie come la Mnemiopsis leidyi, non endemica del Mediterraneo, provoca danni economici sia nell’immediato, poiché gli enormi banchi di migliaia di individui sono un problema per le reti dei pescatori, sia soprattutto sul lungo termine. È un predatore che si nutre di zooplancton – l’insieme di organismi animali che costituiscono il plancton – e quindi compete con le altre specie per il cibo.
Negli anni Ottanta il suo arrivo nel Mar Nero, molto probabilmente attraverso le acque di zavorra delle navi porta-container, che sono ormai il principale vettore di specie aliene, ha distrutto l’economia peschereccia locale.
“La noce di mare potrebbe avere un ruolo sull’economia locale – aggiunge il docente Unife –. Assieme ad altri fattori, il suo ruolo di predatore di larve di altre specie potrebbe essere una delle cause della riduzione delle quantità di ‘seme’ di vongola (le giovani vongoline passate dalla fase di vita planctonica a quella bentonica, cioè dalla colonna d’acqua ai sedimenti) che da qualche tempo si sta osservando in tutte le nursery naturali di vongola nel Delta del Po.”
Posidonia sotto stress
Dal mondo animale a quello vegetale, il riscaldamento delle acque non risparmia nemmeno la Posidonia oceanica, tra le specie più importanti dell’intero ecosistema del Mediterraneo, che ne abita i fondali sabbiosi creando estese praterie fino a quaranta metri di profondità. Oltre a fornire l’habitat per la riproduzione e lo sviluppo di circa il 20% della biodiversità marina, questa pianta ha un ruolo fondamentale con l’avanzare del cambiamento climatico: contribuisce a ossigenare il mare e funge da riserva di anidride carbonica.
“Le praterie di Posidonia oceanica hanno un enorme valore non solo ecologico, ma anche socio-economico – spiega nel rapporto del WWF Lorenzo Merotto dell’Area marina protetta (Amp) di Portofino –. La loro protezione, infatti, non solo assicura la sopravvivenza di molte specie marine, ma garantisce anche la nostra grazie a tutti i servizi ecosistemici che fornisce, dal sequestro di CO2 alla protezione della costa, al mantenimento di popolazioni di specie ittiche. È quindi essenziale intraprendere tutte le misure necessarie per proteggere questo habitat prioritario.”
La Posidonia ha un tasso di assorbimento di carbonio elevatissimo, e si stima che queste praterie abbiano immagazzinato tra l’11 e il 42% delle emissioni di CO2 prodotto da tutti i Paesi mediterranei dall’inizio della rivoluzione industriale fino a oggi.
“La Posidonia agisce direttamente come regolatore contro il cambiamento climatico, un po’ come le foreste terrestri – chiarisce Prato –. Questa pianta sequestra il carbonio esattamente come farebbe una pianta terrestre, attraverso la fotosintesi, e lo immagazzina nelle radici e nelle foglie morte, che poi la prateria stessa va a proteggere. Tutte queste strutture, se danneggiate con gli ancoraggi e le mareggiate, rilasciano l’anidride carbonica precedentemente immagazzinata nell’acqua e, da lì, nell’aria.”
Altra funzione della Posidonia, sempre più necessaria con l’aumento di tempeste e uragani esacerbato anch’esso dai cambiamenti climatici, è proteggere le spiagge dall’erosione costiera, stabilizzando i fondali sabbiosi e fissando i sedimenti.
“Tutta quella banquette che si crea sulle spiagge, quell’ammasso di foglie morte di Posidonia che spesso tanto dispiace ai turisti – aggiunge Prato – in realtà svolge un ruolo fondamentale sulla protezione delle coste dall’erosione. Se la si elimina o la si sparpaglia, questa funzione va perduta.”
Gli ancoraggi da parte delle imbarcazioni da diporto sono tra le attività antropiche più dannose, perché distruggono le foglie e sradicano intere piante. “L’ancoraggio è deleterio sulla Posidonia, infatti è vietato in tutto il Mediterraneo, dall’Italia alla Francia, dalla Croazia alla Grecia fino alla Spagna – racconta Mistri.
Nel golfo di Piombino c’è un bellissimo ‘posidonieto’ che sembra un formaggio groviera perché fino a pochi anni fa era consentito l’ancoraggio in attesa di entrare nel porto: quando si tirava su l’ancora si strappavano via metri quadrati di Posidonia. Spesso le praterie si trovano in prossimità delle calette belle dove si fa il bagno, ma ormai credo che ci sia attenzione tra i diportisti: ci sono cartelli e posizioni di ancoraggio alla boa.”
Se da qualche tempo gli ancoraggi indiscriminati sembrano essere relativamente sotto controllo, la Posidonia è in serie difficoltà a causa dei cambiamenti climatici: secondo il rapporto del WWF le praterie stanno sparendo nella parte sud-est del Mediterraneo, probabilmente a causa dell’aumento di temperatura, e nemmeno nelle aree occidentali godono di buona salute.
Nuoce la proliferazione di specie ittiche tipiche di mari più caldi, inclusi pesci erbivori invasivi che si nutrono delle foglie, ed è stato suggerito che addirittura l’aumento del livello delle acque possa rappresentare un ostacolo, con una riduzione di luce solare per la fotosintesi che sostiene questa pianta.
“Che l’innalzamento di pochi centimetri dell’acqua possa avere effetti sulla Posidonia, questo non lo credo – commenta Mistri –. Ha un effetto molto maggiore, secondo me, la competizione con la Caulerpa, un’alga atlantica arrivata nel Mediterraneo (si dice che sia sfuggita dall’acquario di Monaco) che prolifera nel mare caldo.
La Posidonia non è un’alga: è una pianta superiore, con fusto e radici. La Caulerpa, invece, essendo un’alga, cresce molto più velocemente: quando si trovano nello stesso habitat, La Caulerpa cresce più velocemente, ombreggia la Posidonia e la fa morire.”
Rompiamo il ciclo
Se il Pianeta e il mare si riscaldano, la biodiversità ne risente – ne osserviamo gli effetti quotidianamente – ma a pagare il prezzo più alto sarà molto probabilmente la nostra società. I danni ambientali vanno di pari passo con quelli economici, una consapevolezza che può guidare la ricerca di approcci e soluzioni efficaci per proteggere il Mediterraneo.
“Per contrastare l’inquinamento marino – spiega Mistri – la prima cosa da fare è non buttare mozziconi di sigaretta in spiaggia, raccogliere il pattume che sennò si frammenta e dà origine al ciclo delle microplastiche.”
All’Università di Ferrara, il gruppo di ricerca guidato dal professore sta concludendo due progetti sul monitoraggio dei rifiuti marini con i pescatori tra l’Emilia-Romagna e il Veneto, nelle aree di Goro, del Delta del Po e di Chioggia, per facilitare la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti in porto.
E i dati sono molto simili tra le varie zone studiate: il 40-50% dei rifiuti marini sembra provenire dalle retine degli allevamenti delle cozze, che si trovano a tonnellate sui fondali.
“Conoscendo il ciclo di lavorazione, non sono il pescatore o l’allevatore che inquinano: sono le tempeste e gli uragani, la cui frequenza è molto aumentata per via del cambiamento climatico.
Quando un evento atmosferico estremo – prima ce n’era uno ogni dieci anni, oggi uno ogni due anni – si abbatte sugli allevamenti di cozze offshore, il materiale delle reti si frantuma, e così pescatori e allevatori perdono il loro prodotto, le cozze, e noi ci ritroviamo questo materiale in mare.”
Anche il WWF Italia, tra i diversi pilastri di mediazione volti a mitigare tutte le minacce incombenti sul Mediterraneo, porta avanti azioni mirate sulla pesca, afferma Prato, “lavorando con i pescatori per coinvolgerli in attività di gestione della pesca a livello locale e atteggiamenti più attenti e selettivi per diminuire l’impatto sui fondali, per esempio utilizzando meno attrezzi. A questo proposito lavoriamo sempre di più anche sull’inquinamento, sia da plastica sia da reti fantasma.”
Le reti fantasma sono attrezzi da pesca abbandonati o persi che però non smettono di funzionare e dunque hanno un duplice effetto: da un lato continuano a decimare le popolazioni ittiche e altri animali come tartarughe, uccelli e mammiferi marini, che vi rimangono intrappolati, dall’altro hanno un impatto sui fondali perché si attorcigliano alle costruzioni di coralli come la gorgonia e della stessa Posidonia, soffocandole.
In Italia, il WWF coinvolge i cittadini attraverso una rete di centri sub (WWF Sub) a cui tutti possono aderire per partecipare alla pulizia dei fondali marini: all’inizio di luglio, il progetto Ghost Gear ha recuperato oltre 200 chili di reti e altri attrezzi nell’area marina protetta di Portofino.
Le Amp e il loro potenziamento sono elementi cruciali per la salvaguardia degli ecosistemi marini. In questo contesto, il WWF sta portando avanti una campagna di pressione sulle istituzioni per ottenere che il 30% del Mediterraneo venga “tutelato in modo efficace entro il 2030 attraverso aree marine protette che siano veramente gestite e implementate efficacemente – aggiunge Prato, che cita un altro report pubblicato dal WWF a febbraio sul ruolo delle aree protette nella rigenerazione della biodiversità marina.
Questo può davvero invertire la rotta: gli studi scientifici dimostrano che, se si protegge questa percentuale del Mediterraneo, si può davvero avere un recupero della biodiversità e anche un ripristino importante degli stock ittici. E tutti gli effetti positivi a cascata che ne conseguono.”
“Oltre alla pressione sulle istituzioni – continua Prato – lavoriamo sul campo con cinque Amp, ma vorremmo estendere la collaborazione con tutte quelle esistenti. Per questo stiamo anche lavorando con il Ministero della transizione ecologica, per far avere maggiori finanziamenti alle Amp in modo da favorire al meglio il loro lavoro, perché sono veramente la chiave per salvare il Mediterraneo.”
Sono tante le iniziative del WWF, raccolte sul portale GenerAzione mare, a cui chiunque può partecipare: dai tour plastic-free per la pulizia delle spiagge ai progetti di citizen science, come ‘Le vele del Panda’ che organizza crociere di ricerca in cui i turisti sono coinvolti nella raccolta dei dati sui cetacei, fino ai campi di volontariato per monitorare e proteggere i nidi delle tartarughe, minacciati dall’edilizia sfrenata.
Se, come ironizza Mistri, “il cittadino deve sapere che è di passaggio sul Pianeta: il Pianeta sopravviverà, magari sarà dominato da organismi gelatinosi”, d’altro canto la posta in gioco per noi umani e la nostra società è altissima, e per invertire questa tendenza è imperativo ridurre la pressione umana sugli ecosistemi, salvaguardare la biodiversità e costruire la resilienza del mare.
Lavoro molto interessante . È sicuramente un valido aiuto per tutti coloro che hanno a cuore la salvaguardia del nostro pianeta e desiderano conoscere come è la situazione dell’ambiente in cui viviamo. Complimenti agli autori dell’articolo per la chiarezza dell’esposizione.
Mi sono appassionata a leggere questo articolo chiaro è illuminante su alcune cause dell’inquinamento Marino di cui non ero a conoscenza .