Uno dei principali limiti alla carriera scientifica per le donne è che, oltre a comparire in misura minore come prime autrici, i loro articoli hanno inferiore probabilità di essere pubblicati in riviste di alto livello e ricevere citazioni. Sono aspetti che incidono sul punteggio scientifico, il cosiddetto impact factor, utile e indispensabile per progredire nella carriera e per ricevere finanziamenti indispensabili alla ricerca.
Un altro limite è la minore visibilità riservata alle donne: i colleghi uomini ricevono più inviti ai convegni e premi più prestigiosi. Pensiamo ad esempio al Nobel: dal 1901, su oltre 900 premi, è stato assegnato alle donne solo in cinquantatré casi, di cui diciannove nelle categorie scientifiche.
“Uno dei criteri che incidono sull’importanza scientifica della persona – ribadisce la professoressa Signani – è il posizionamento del nome nell’elenco di autrici e autori dello studio. Solitamente le donne non compaiono né per prime (chi ha ideato e gestito la ricerca) né per ultime (il posto del capo-struttura), e chi sta in mezzo non ha lo stesso punteggio perché ritenuto marginale nella ricerca, anche se non sempre questa gerarchia rispecchia l’impegno profuso.
Questa sistematica penalizzazione delle donne è un problema noto, che si è rivelato ancor più incisivamente con i lockdown. Tutte le donne, infatti, comprese le scienziate, hanno dovuto ottemperare agli impegni di cura famigliare, che hanno impedito loro di concentrarsi su studi e ricerche. I dati sul calo dei lavori scientifici da parte delle scienziate durante le fasi di lockdown, e sul contemporaneo aumento di quelli degli uomini, obbligano a prendere atto che la regressione dei diritti e la riaffermazione dei ruoli di genere tradizionali ha coinvolto anche classi sociali che, pur con un’elevata scolarizzazione tecnica, mancano di una cultura di base su questi temi e sulle trappole cui i ruoli di genere conducono.”
“Nel nostro settore andrebbe rivisto il meccanismo stesso di arruolamento e di job application – concorda la dottoressa Inno – poiché si basa sul numero di pubblicazioni: se pubblichi meno, sei meno competitiva. In questo anno e mezzo le donne hanno prodotto in misura minore per fattori da loro indipendenti, e ci preoccupano molto le ricadute in termini di opportunità per il prossimo futuro.”
La priorità è intervenire con politiche sociali adeguate
Le disparità lavorative, e di conseguenza salariali, evidenziate dal Consiglio universitario nazionale (Cun), dai dati nella sanità e dall’indagine di ValoreD devono contribuire a far luce sulle cause e possibili soluzioni.
Un primo passo sono le politiche sociali. “È scientificamente provato – afferma Inno – che il 70% del lavoro di cura della famiglia è svolto dalle donne e che le ricercatrici fanno il doppio dei lavori domestici rispetto ai colleghi uomini. Sono ancora forti le aspettative sociali che gravano sulla figura femminile e l’equilibrio con il lavoro non è facile.
Prima di tutto la maternità è vista come un ostacolo: la ricerca è un ambiente molto competitivo e la difficoltà di conciliare questo lavoro con il tempo dedicato alla famiglia è grande. In alcuni istituti, come a Heidelberg, c’è uno spazio per poter lavorare con il bambino durante l’allattamento, in altri c’è un nido nel campus: fornire questi servizi sarebbe fondamentale.”
Anche le donne sono spesso vittime dei pregiudizi di genere
L’altro ambito di intervento è nel mondo accademico. Il Cun elenca una serie di iniziative che le università dovrebbero intraprendere per favorire la carriera delle donne, dalle politiche di orientamento alla parità nei bandi di ricerca fino al linguaggio di genere.
“Purtroppo – sottolinea Inno – spesso le donne sono le peggiori nemiche delle altre donne. In parte è un problema legato al vissuto personale: quando ti devi adattare a un ambiente maschilista senti di doverti comportare come un uomo per avere successo e diventi quasi ostile verso le altre donne. Inoltre, c’è molto precariato per le ricercatrici che potrebbero scoraggiarsi e lasciare l’ambiente accademico per una professione più stabile.”
Lo confermano le stesse lavoratrici del settore scientifico e tecnologico: solo il 4% del campione intervistato da ValoreD ha dichiarato che è più facile lavorare con altre donne, oltre al fatto che la maggioranza trova ispirazione soprattutto in figure maschili. Mancano quindi modelli di riferimento femminili. “Per questo è importante che esempi come la Cristoforetti – aggiunge Inno – riescano a convogliare l’idea che si può perseguire una carriera senza necessariamente dover essere un uomo, nonostante purtroppo si senta spesso dire ‘anche se donna’ quasi fosse un complimento.”
“A tal proposito – aggiunge Signani – entrano in gioco due fattori. Da un lato la struttura patriarcale della società, che non resterebbe tale se non fosse condivisa dalla maggior parte degli uomini ma anche da una parte consistente delle donne. In sociologia parliamo di uomini e donne denominati, attingendo dallo studio dei comportamenti animali, alfa, che accettano e mantengono un rapporto asimmetrico con il target mantenuto svantaggiato degli uomini e delle donne beta. Questo fa sì che le stesse donne alfa non siano nemmeno disponibili a trattare il tema del genere, verso cui spesso manifestano insofferenza.
L’altro aspetto riguarda la cosiddetta socializzazione anticipatoria. È un fenomeno che si consolida attraverso quella che viene denominata ‘socializzazione primaria di genere’, che determina una tendenza a disincentivare l’ambizione lavorativa delle donne al punto che sono loro stesse ad autolimitarsi. Abbiamo dati sconfortanti dalle analisi delle scelte lavorative comparate tra maschi e femmine, così come permane la convinzione che esistano lavori ‘per donne’ e lavori ‘per uomini’, una categorizzazione stereotipata definita sex-typing.
La stessa professione dello scienziato risente di forti pregiudizi sessuali e non è ancora considerata pienamente adatta alle donne, che come detto tendono ad autolimitarsi e spesso assecondano determinate situazioni perché nulla le tutela da questi meccanismi. La legge infatti non riesce a incidere su questo livello di relazioni, ma servirebbero azioni strategiche complesse in grado di aggredire stereotipi e disuguaglianze con sistemi premianti e disincentivanti in un’ottica rieducativa.”
Intervenire sul linguaggio di genere per cambiare la percezione della realtà
Infine, tra le strategie da adottare per contrastare l’uscita delle donne dal percorso accademico c’è anche l’utilizzo di un linguaggio rispettoso del genere all’interno di tutti gli organi universitari.
“È sicuramente importante che la lingua si adatti alle nuove esigenze – afferma Inno – Se oggi termini come “ingegnera” suonano strani, magari tra dieci anni un bambino che li studia nel vocabolario si abitua anche all’idea che sia un lavoro per entrambi i generi. Il maschile neutro infatti non è neutro per niente: nella scienza il problema è forse meno forte perché la lingua ufficiale è l’inglese, in cui di solito il neutro c’è, ma in italiano dobbiamo iniziare a modificare le parole per modificare il nostro modo di vedere questi lavori.”
“In psicologia è consolidata l’interpretazione del linguaggio come rappresentazione del pensiero – conclude Signani – e un linguaggio rispettoso del genere favorisce un cambio di mentalità contrastando stereotipi di cui siamo inconsapevoli portatrici e portatori. Obbligare dunque a declinare al femminile una denominazione abbinata al rispetto professionale significa educare le persone a riconoscere alla donna quel rispetto che altrimenti le sarebbe negato.”