Biennale di Venezia. Architetture per vivere insieme, secondo gli architetti Frediani e Melis, curatore del padiglione Italia (1) Troppa arte e poca architettura?

Biennale di Venezia. Architetture per vivere insieme, secondo gli architetti Frediani e Melis, curatore del padiglione Italia (1)

Troppa arte e poca architettura?

Ci troviamo in una fase di miglioramento della pandemia, e probabilmente siamo più attenti ai nodi critici del Mondo: i cambiamenti climatici, le disuguaglianze, le malattie e le migrazioni. Sono di fatto le tematiche che affronta la 17° Mostra Internazionale di architettura organizzata dalla Biennale di Venezia, curata dall’architetto libanese Hashim Sarkis. Il titolo scelto per questa Biennale How will we live together? esprime proprio l’invito a prendere consapevolezza del fatto che siamo una società composta da uomini, animali, piante, acque, aria che dividono lo stesso piccolo Pianeta.

Sarkis, nella presentazione della mostra, definisce qual è oggi il ruolo dell’architetto e lancia un messaggio chiaro: la politica non fornisce risposte soddisfacenti riguardo la gestione sociale dello spazio in cui viviamo. Gli architetti, invece, sono in grado di rispondere, organizzando gli spazi grazie all’immaginazione e progettando ambienti svincolati dalle consuete norme sociali, in sinergia con altri attori ed esperti.

Il tema è stato proposto pochi mesi prima dello scoppio della pandemia. L’idea di fondo di Sarkis è che molte delle ragioni che inizialmente hanno portato a formulare la domanda posta nel titolo (la crisi climatica, gli spostamenti di popolazione, le instabilità politiche in tutto il Mondo e le crescenti disuguaglianze razziali, sociali ed economiche) sono proprio quelle hanno condotto a questa pandemia, e che con il suo esplodere sono diventate ancora più rilevanti. Forse non è una coincidenza, ed è uno spunto di riflessione.

Una grande e stimolante confusione

La Biennale di architettura 2021 esplora cinque scale di grandezza: l’individuo, le abitazioni, le comunità, il territorio e il Pianeta attraverso opere e installazioni di centododici partecipanti provenienti da quarantasei Paesi.

Alcuni critici non hanno giudicato positivamente questa pluralità di livelli: se da un lato questa Biennale è scenograficamente suggestiva, dall’altro la volontà di inserire più storie possibili l’ha resa però caotica e frammentaria. 

Gianluca Frediani, docente del Dipartimento di architettura dell’Università di Ferrara (@Unife)

Concorda in parte con questo giudizio anche Gianluca Frediani, docente del Dipartimento di architettura dell’Università di Ferrara, puntualizzando però che “istituzionalmente la Biennale non è un luogo dove vengono trovate delle soluzioni, ma è un posto di scambio, molto più aperto, dove vengono comunicate e discusse idee. 

Questo giustifica in parte la grande e meravigliosa confusione della Biennale. Nell’Arsenale, visitando un padiglione si comincia già a vedere quello che contiene il padiglione successivo. C’è un’intersezione continua di viste e sensazioni che rendono molto stimolante la visita.”

Alessandro Melis, architetto e curatore del padiglione Italia, lavora da anni sui temi della sostenibilità e ha dichiarato a questo proposito ad Agenda17: “sia la Mostra internazionale, sia nel nostro caso il padiglione Italia, sono approcci alla mostra estremamente transdisciplinari. 

In tutti i momenti di crisi, l’approccio transdisciplinare è quello che consente di superare le tassonomie delle discipline e di rinnovarle. E quindi lo vedo come un aspetto positivo. Alcuni colleghi lamentano la mancanza di un’architettura più tradizionale, quella che si fa con i mattoni. Io la vedo esattamente nel senso opposto: finalmente cerchiamo di modificare i paradigmi.”

Più arte che architettura 

Secondo Frediani, in questa Biennale, come anche nelle edizioni precedenti, manca una sorta di report di situazioni concrete, di progetti  che hanno raggiunto il livello di best practice. Insomma, soluzioni convincenti sulle quali si può riflettere e sviluppare nuove realtà. 

“Questa mancanza non è semplicemente una mancanza tecnica – continua Frediani – ma deriva dal fatto che viene un po’ spezzato quel ciclo di miglioramento progressivo che possiamo innescare sulle esperienze compiute. È importantissimo nel nostro settore, e lo abbiamo visto nella gestione delle città e del territorio.”

La storia della Mostra può fornire alcune spiegazioni parziali: la Biennale dell’architettura è molto più recente rispetto a quella dell’arte che risale a fine Ottocento. La Biennale di architettura nasce invece nel Dopoguerra. E secondo Frediani risente della presenza della sorella maggiore. 

“Questo spiega in parte – afferma l’architetto – la tendenza a rappresentare i problemi in una maniera più astratta, simbolica e quindi molto spesso artistica. Ma ciò non toglie che le tematiche che sono alla base di queste espressioni siano di grande interesse e siano tutte legate al tema generale che Sarkis aveva tracciato.”

Alcune soluzioni pratiche

Il focus, dunque, è sui problemi e sulle interpretazioni, piuttosto che sulla loro risoluzione pratica. Ciò non toglie che emergono comunque degli spunti interessanti che possono trovare una declinazione pratica nel Mondo di oggi e porre delle basi per realizzazioni nel futuro. 

Secondo Frediani, un esempio riuscito è una costruzione residenziale multipiano realizzata a Beirut da Lina Ghotmeh: essa  rappresenta la sintesi efficace fra il tema della convivenza futura e quello della distruzione che purtroppo sta vivendo il Libano attuale. 

Il tema del cohousing si rintraccia anche nel padiglione dei Paesi nordici, e si tratta di un approccio all’abitare molto sentito e largamente applicato nel nord Europa a differenza che in Italia.

L’acqua è un altro tema ricorrente che compare in diversi padiglioni. “Il padiglione della Danimarca nella sua semplicità e nella sua attenzione alla sostenibilità ambientale, mi è particolarmente piaciuto – afferma Frediani – proprio perché è riuscito ad analizzare un’esigenza concreta, quotidiana e certamente una delle grandi sfide del futuro; ma qui diventa un elemento di comunicazione artistica e scientifica, anche perché c’è una spiegazione sul modo di raccogliere l’acqua, filtrarla, purificarla, riutilizzarla, conservarla. 

Per cui è davvero un ciclo continuo esposto in questo piccolo spazio.” Ovviamente il tutto inserito nello scenario veneziano che affonda le radici della propria esistenza, unicità e identità proprio nell’acqua. 

Parte terminale del ciclo di raccolta dell’acqua del padiglione Danimarca. Il visitatore può riempirsi il bicchiere e bere (Foto di Sofia Varotto)

Nella Mostra internazionale vengono descritte nuove relazioni tra l’uomo e l’ambiente. EcoLogicStudio presenta una struttura funzionante che sfrutta il microbioma urbano, in particolare la fotosintesi della Spirulina platensis, un cianobatterio commestibile in grado di metabolizzare gli inquinanti nell’aria, per trasformarli in un alimento molto nutriente.

Maison Fiber è il componente centrale dell’installazione realizzata da Achim Menges. Si tratta di materiali compositi in fibra di vetro e carbonio. La costruzione fibrosa offre un approccio materiale profondamente diverso per la costruzione degli habitat umani del futuro ed è la prima struttura abitabile, multipiano e fibrosa del suo genere.

Tra le esperienze da segnalare c’è il padiglione della Corea, estremamente minimalista, che focalizza l’attenzione sul tema della formazione e della scuola. 

Non c’è solo la crisi ambientale sulla quale dobbiamo intervenire, bensì anche la necessità di ridisegnare l’educazione scolastica. “Il tema dell’educazione – afferma Melis – è centrale perché, se io sono il dinosauro, che tipo di conoscenza trasferisco alle future generazioni? Siamo giunti a un punto di passaggio da una condizione a un’altra, questo spazio della conoscenza che divide normalmente i docenti dagli studenti è diventato enorme.” (1.Continua)

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