La cura del Pianeta – l’impegno inderogabile che ci aspetta mentre cerchiamo di tenere sotto controllo la pandemia – è articolata dall’Onu in 17 obiettivi. Sono i temi di cui si occupa questa testata, che dalla sua recente nascita ha cominciato a esplorarne tutte le implicazioni. E già nell’editoriale di apertura dichiaravamo come impegno programmatico che la cura per il Pianeta è “anche cura per i bisogni delle persone, per la giustizia e per la riduzione delle diseguaglianze in una prospettiva di interdipendenza fra globale e locale”.
Questa cura per i bisogni e per la riduzione delle diseguaglianze ha un nome: “giustizia”. Ora, sappiamo benissimo che integrare cura per il Pianeta e giustizia è molto difficile, al di là delle dichiarazioni di principio.
Nella pratica, si può, ad esempio, essere ecologisti virtuosi che non inquinano, consumatori attenti, e, allo stesso tempo, indifferenti alle sorti dei disgraziati che da sprecare hanno nulla perché non hanno nemmeno di che campare. O, per converso, farsi carico della ingiustizia sociale e rinviare a tempi migliori l’“ecologia”, sentita come lusso di chi ha troppo.
Ma anche nell’analisi teorica è difficile elaborare un pensiero che integri armonicamente cura e giustizia. Sono categorie concettuali che nascono e si sviluppano in mondi – accademici e politici – lontani teoricamente e sfalsati anche temporalmente.
La riflessione sulla giustizia è antica quanto la compagine sociale, e dei rapporti fra i suoi membri si occupa, ignorando sostanzialmente, ad esempio, soggetti non umani. Le teorie della cura sono recenti, e quando, muovendo dai rapporti affettivi personali, si sono allargate alla “casa comune” planetaria, hanno dovuto fare i conti con punti di riferimento instabili. Ne è una prova la pressione che si esercita sul quadro normativo e giuridico di cui abbiamo parlato in queste pagine.
Come uscirne? Sono le passioni la grande risorsa sociale a cui fare appello. È questa la grande lezione di Elena Pulcini, la filosofa dell’università di Firenze che ci ha recentemente lasciato.
Proponiamo di seguito la nostra recensione del suo ultimo lavoro “Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale”, edito da Bollati Boringhieri, pubblicata su I castelli di Yale.
“Ci salveranno le passioni. Stretti nella morsa tra necessità di giustizia e bisogno di cura, le passioni, ben lungi dall’essere residuo irrazionale delle nostre capacità superiori, sono un’insopprimibile e preziosa costituente del soggetto e una capitale risorsa sociale. Forse l’ultima e decisiva risorsa per una società che, in virtù della cosiddetta globalizzazione, deve misurarsi da un lato con ingiustizie crescenti e dall’altro con un inaudito dilatarsi del bisogno di cura nello spazio e nel tempo.
Senza la risorsa sociale delle passioni, le ingiustizie sono al di fuori della portata dei modelli politici ed economici elaborati nella modernità, e la cura non riesce nemmeno a rapportarsi alle inedite figure dell’altro che si impongono nel presente: l’altro che proviene da uno spazio geografico o culturale lontano – e che percepiamo sempre più come “invadente” – e l’altro che dal futuro ci chiede di consegnargli in buono stato la casa comune del pianeta.
In ‘Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale’, si intrecciano i diversi fili del lungo lavoro di ricerca di Elena Pulcini, che ha insegnato per molti anni Filosofia sociale all’Università di Firenze. Sono temi che si articolano in un campo vasto che potremmo definire delle patologie della modernità, e che spaziano dalla condizione post-umana nell’era della tecno scienza alla soggettività femminile, dal sentimento individuale alla cura del Mondo.
Ma è forse il tema della passione quello che connota maggiormente l’originalità del contributo della studiosa, e che in quest’ultimo lavoro fa da cerniera fra i due grandi temi, non così facilmente coniugabili, della cura e della giustizia, e che consente di passare da una riflessione per molti aspetti accademica – nella misura in cui tiene necessariamente conto di tutti i riferimenti settoriali – alla chiara enucleazione di una prospettiva agibile, alla robusta tessitura di un fio sempre rintracciabile del che fare.
Ci piace vederle, queste passioni così declinate, come la portante di linee guida anche per non esperti, attrezzi utili per questo tempo difficile, che nel confronto diretto con la patologia del presente giunge fino alla pandemia in atto. Le passioni, dunque.
Come portanti di questo progetto di ricerca-per l’azione, esse esibiscono anzitutto una potente funzione cognitiva che consente di superare il tradizionale dualismo passione/ragione.
Non sono la ‘sabbia nel meccanismo della razionalità’ ma, in un percorso che va dalla filosofia spinoziana alle neuroscienze di Antonio Damasio, emergono dai processi paralleli e mutuamente correlati di mente e corpo che si rispecchiano continuamente l’una nell’altro, fino a manifestarsi come espressione emotiva di ciò che pensiamo e crediamo.
In questa prospettiva, la giustizia, che deve far fronte a disuguaglianza e sfruttamento, umiliazione e povertà, non può essere ristretta nel recinto delle teorie liberali (alla maniera, fra tutti, di John Rawls) ma deve mobilitare sentimenti come l’umanità e la generosità, la rettitudine e l’indignazione. Solamente dal prendere in carico emotivamente e ponderare razionalmente il sentimento di ingiustizia è possibile pensare e progettare un diverso modello normativo di giustizia.
E in maniera complementare, la cura deve uscire dalla relazione altruistica e oblativa nell’ambito puramente affettivo privato, professionale e sociale, mobilitando sentimenti come l’attenzione la generosità e l’amore, per estendersi nella nuova dimensione globale che convoca «l’altro sconosciuto e distante» nello spazio e nel tempo (i popoli poveri e svantaggiati e i gruppi colpiti da catastrofi da un lato e le generazioni future esposte ai risultati del nostro agire ambientale dall’altro).
Non l’una senza l’altra. La metamorfosi del soggetto che aspira alla giustizia ed è capace di cura procede coniugandole nel ricorso alle passioni, che sono la forza emotiva del cambiamento consapevole.
Prendersi cura delle passioni, pertanto, è la via regia che l’autrice indica, in un incedere di tappe che tiene il lettore quasi con il fiato sospeso, verso un finale possibile e lieto.
Si muove da un ‘paradigma ascetico’, ancora incentrato sulla relazione del sé col sé, esplorato da Michel Foucault e Peter Sloterdijk per quanto riguarda il controllo delle passioni, e ampliato in Günther Anders dall’apertura straniante all’immaginazione. Incontrando il pensiero di Simone Weil, il sé compie nella ‘decreazione’ un formidabile passo indietro, che conferisce all’altro pienezza di statuto nella relazione, e sulle orme di Adriana Cavarero, la postura del soggetto si fa «inclinata», protesa verso qualcosa che sta al di fuori del sé, verso l’altro.
Ma ancora un passo è necessario a partire da questa nuova postura: valorizzare la dimensione emotiva per sviluppare un ‘soggetto emozionale’ che, nella definizione di Pulcini ‘approda alla metamorfosi in quanto si lascia decentrare dalla dinamica relazionale delle passioni.”