Colonie di coralli e altre specie autoctone stanno scomparendo, mentre proliferano alghe e pesci tipici di mari più caldi: così cambia inesorabilmente la biodiversità al largo delle coste italiane a seguito del costante aumento di temperatura del Mar Mediterraneo.
Sono i risultati del monitoraggio effettuato nelle aree di Portofino, Isola d’Elba e Plemmirio da Greenpeace insieme al Dipartimento di scienze della terra, dell’ambiente e della vita dell’Università di Genova, presentati nella relazione del primo anno del progetto “Mare Caldo”.
L’aumento della temperatura superficiale delle acque, circa 0,04ºC l’anno, è simile nei tre siti analizzati e in linea con i valori misurati nel Mediterraneo negli ultimi decenni. Rispetto al 1980, questo significa un incremento di 1,7ºC per l’area di Portofino, di 1,8ºC per l’Isola d’Elba e di 1,1ºC per l’area del Plemmirio, la più a sud delle tre, sulla costa orientale della Sicilia.
Nell’ambito del progetto, a partire dal 2020 è iniziato anche il monitoraggio della temperatura non solo in superficie ma anche in profondità, con sensori posizionati ogni 5 metri sulle scogliere rocciose, fino a 40 metri.
Meridionalizzazione del Tirreno settentrionale
“La misura continua di temperatura della colonna d’acqua ci dà la prima informazione utile – ha dichiarato ad Agenda 17 Monica Montefalcone, ecologa marina, ricercatrice all’Università di Genova e responsabile scientifica del progetto – per capire se la variabilità stagionale è normale oppure se, avendo a disposizione dati storici, ci sono degli eventi, che noi chiamiamo anomalie termiche o ondate di calore, indicativi di questi picchi di caldo che avvengono a causa degli effetti climatici e hanno impatto sugli ecosistemi marini.”
La seconda informazione viene dalle immersioni subacquee. “Usiamo un protocollo ideato da alcuni colleghi spagnoli – aggiunge Montefalcone – per valutare gli effetti del riscaldamento globale e soprattutto di queste ondate anomale di calore su alcune specie target importanti dell’ambiente marino: in particolare le gorgonie – colonie di coralli molli arborescenti che popolano i fondali rocciosi – i madreporari – colonie di polipi con scheletro calcareo che contribuiscono alla creazione di scogliere coralline – e le alghe corallinacee, che sono i primi a mostrare segni di stress, di sofferenza.”
Il primo anno di misure ha registrato un’ondata di calore anomala, con un aumento di circa 2ºC rispetto alla media per alcuni giorni a giugno del 2020, che fortunatamente non è stata seguita da conseguenze evidenti sugli ecosistemi. Corrispondono invece a eventi anomali di anni passati gli effetti osservati durante i rilevamenti nei tre siti, con differenze specifiche a seconda della latitudine.
Le gorgonie, sia gialle che bianche, sono tra le specie più colpite nelle aree di Portofino e dell’Isola d’Elba, fino al 40-50 per cento in alcuni siti, con evidenti segni di necrosi: un effetto diretto dell’aumento di temperatura ma anche indiretto poiché favorisce la proliferazione delle mucillagini, che si depositano sopra gli organismi, soffocandoli. La graduale scomparsa delle gorgonie, specie chiave per l’ecosistema, è iniziata con eventi di mortalità di massa già alla fine del Ventesimo secolo ma, mentre pareva essersi arrestata nell’ultimo decennio, i nuovi dati mostrano un trend in controtendenza.
A questo si accompagna un aumento di specie dette “termofile” perché prediligono ambienti caldi: a Portofino, ad esempio, abbonda l’alga a grappoli verde, una specie invasiva originaria dell’Australia e giunta nel Mediterraneo solo negli anni Novanta del secolo scorso.
Nelle acque dell’Isola d’Elba, l’aumento della temperatura ha provocato uno sbiancamento della Cladocora caespitosa, corallo appartenente all’ordine delle madrepore e tra le specie più importanti nelle acque basse del Mediterraneo. Lo studio ha riscontrato anche la morte di vari esemplari di Pinna nobilis, un grande mollusco bivalve noto anche come “nacchera”, vittima di un’epidemia del 2018–2019 favorita dal riscaldamento delle acque.
“Per Portofino, c’erano tante serie storiche – racconta ad Agenda17 Giorgia Monti, responsabile della Campagna Mare per Greenpeace Italia – perché l’Università di Genova lavora lì da anni, mentre all’Elba c’erano dei dati di un professore che era stato lì dieci anni fa.
Abbiamo avuto fortuna, siamo andati sugli stessi siti e abbiamo fatto dei monitoraggi standardizzati nello stesso modo per poter confrontare i dati. Nei primi 10-20 metri d’acqua abbiamo visto una tendenza significativa al cambiamento, con la comparsa di alcune specie e altre che spariscono.”
Tropicalizzazione dello Ionio occidentale
Se il Mar Ligure e il Tirreno settentrionale si stanno “meridionalizzando”, nell’area del Plemmirio, sulla costa occidentale del Mar Ionio, si osserva il fenomeno della tropicalizzazione, con l’aumento di specie originarie di mari più caldi. Oltre a diverse alghe “aliene” tra cui l’alga rossa tropicale e quella verde a grappoli, si rileva una presenza sempre maggiore del pesce pappagallo e della donzella pavonina, caratteristici di aree più calde del Mediterraneo, la diffusione del pesce coniglio e l’avvistamento di alcuni pesci flauto, entrambi tipici del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano.
“Purtroppo non abbiamo i dati storici ovunque – prosegue Monti – per esempio al Plemmirio abbiamo fatto noi il ‘punto zero’ che speriamo si possa confrontare con gli studi che si faranno tra 10 anni. Anche in questo le Aree marine protette (Amp) si stanno rendendo conto che è importantissimo standardizzare, fare dei monitoraggi e ripeterli nel tempo, perché solo così possiamo renderci conto del cambiamento.”
Cronaca di una moria annunciata
Nella comunità scientifica, sottolinea Montefalcone, gli effetti del riscaldamento globale si studiano da decenni, e le prime documentazioni dell’impatto sugli ecosistemi marini risalgono agli anni Novanta. Eppure al di fuori degli addetti ai lavori se ne parla poco.
“Devo dire che io, che non mi immergevo da tanto – aggiunge Monti – sono rimasta molto colpita dal vedere sott’acqua come le cose stiano cambiando velocemente. Andando poi a parlare con fotografi subacquei molto importanti in Italia e poi con ricercatori, è uscito un quadro quasi sconosciuto al pubblico comune.”
In Italia si parla spesso dell’impatto delle plastiche sugli ecosistemi marini, ma l’aumento delle temperature e l’impatto dei cambiamenti climatici sono avvertiti come un problema delle aree tropicali e delle barriere coralline, non come un’emergenza locale. Invece è una realtà molto forte che sta trasformando la biodiversità anche nel Mediterraneo.
“Sicuramente negli anni la situazione dei fondali e della vita sia animale che vegetale nel parco di Portofino è decisamente cambiata – conferma ad Agenda17 Massimo Sorghi, medico, guida subacquea nell’Amp di Portofino e Master instructor affiliato a International Diving Educators Association e Worldwide Divers Academy. – Per anni abbiamo assistito a un miglioramento, ma da qualche anno la situazione è nettamente peggiorata soprattutto per il marcato incremento della temperatura dell’acqua, percepibile anche durante le immersioni.”
“I sub sono forse un poco, ma solo un poco più coscienti del problema – prosegue Sorghi – soprattutto quelli con più anni di esperienza, che hanno visto la crescita del Parco e anche di altri siti subacquei in Italia e ora vedono un peggioramento. Troppo spesso i subacquei sott’acqua sono distratti dai pesci grossi: cernie, dentici, murene e perdono i dettagli, le piccole cose, le vere meraviglie che possiamo trovare nell’immersione.”
C’è da auspicarsi che qualcosa cambi nei prossimi anni, grazie a iniziative come “Mare caldo”, che raccoglie dati da tutti i mari italiani, per la prima volta in maniera sistematica, inserendoli nella più ampia rete internazionale Tracking climate change effects in the Mediterranean (T-MEDNet). Se la collaborazione con le prime Amp, che hanno aderito con entusiasmo, ha incontrato qualche scoglio burocratico, il lavoro svolto ha spianato la strada, e sono già nove i siti partner (di cui otto Amp) su tutto il litorale nazionale. Proprio a fine maggio, Montefalcone e Monti erano impegnate nell’installazione di sensori nell’area di Villasimius, in Sardegna.
Sorghi segnala inoltre Engaging Mediterranean key actors in Ecosystem Approach to manage Marine Protected Areas to face Climate Change (MPA ENGAGE), un progetto che porta le Amp del Mediterraneo in prima linea nelle strategie di adattamento al cambiamento climatico.
Azioni locali, nazionali e globali
Solo dieci anni fa, erano la perdita e il degrado di habitat naturali le principali minacce per gli ecosistemi del Mediterraneo, un hotspot mondiale per la biodiversità. Oggi il riscaldamento globale si è imposto come fattore importante in questo bilancio.
“Per essere molto onesti, il cambiamento climatico non si ferma nel mare – ricorda Monti. – Si ferma con politiche coordinate a livello internazionale, è chiaro che una linea è quella, in supporto alla campagna prioritaria di Greenpeace con cui chiediamo una trasformazione del sistema energetico e l’abbandono dei combustibili fossili.”
Alle azioni globali, per contrastare l’omogeneizzazione della biodiversità marina occorre affiancare iniziative mirate che riducano inquinamento e pesca. Il rapporto mostra infatti come gli ambienti già colpiti dall’impatto di altre attività umane reagiscono peggio allo stress aggiuntivo prodotto dal riscaldamento, mentre gli ambienti tutelati mostrano una maggiore resilienza, con specie che si adattano meglio ai cambiamenti.
Fondamentale è dunque il potenziamento della rete di Amp, che ad oggi comprende circa il 10% della superficie territoriale nazionale. In una risoluzione approvata durante il Congresso mondiale dell’Unione internazionale per la conservazione della natura del 2016, 170 Paesi tra cui l’Italia si sono impegnati a proteggere almeno il 30% degli ecosistemi marini entro il 2030, in linea con i traguardi previsti dall’Obiettivo 14 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile.
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